ALITANTI NELLE MAGICHE ATMOSFERE DI UN VOLTA.

“ALLORA CHE SI STAVA PEGGIO, IN FONDO SI STAVA MEGLIO.”

Non v’era dimora, umile o signorile, prima che gli schermi televisivi, trasformassero tutti i cittadini, in guardoni, allontanandoli, con subdole lusinghe pubblicitarie ed insulsi programmi di intrattenimento, dalle belle relazioni interpersonali e dalla partecipazione alla vita attiva, che rottamasse impietosamente tradizioni, persone e sogni.

Non aveva ancora visto la luce un bambino che a Pasqua non agognasse affondare, nel friabile dolce tipico, la scarcella, gli sparuti dentini traballanti. A breve sarebbero finiti su un tetto con la perorante cantilena “Dint dint, tammèngh u sturt, mammìn un dritt? Dente, dente, ti getto quello storto, mi dai uno dritto?

Allora, volti femminili, scavati dalle rughe anzitempo e canuti capelli raccolti in crocchia, intercettavano gli infantili desideri, che non venivano neanche espressi per pudore, e recitavano dignitosamente la propria parte, con analfabetismo di lettere, ma pienezza di cuore.

L’atmosfera della festa veniva anticipata la Domenica delle Palme. I piccoli, timidamente porgendo l’imbarazzata palma d’ulivo a nonne e nonni, zie e zii, comari e compari, gioiosamente raggranellavano qualche soldino, appena dieci, massimo cento lire, per comprare “gigette”, caramelline nere di liquirizia, lecca lecca e gelati di zucchero. Manciate di fave arrostite venivano divorate durante il ritorno a casa, invece le uova, appena scodellate da galline ruspanti, impiastricciavano, non di rado, vestitini e gonnelline dei dì di festa.

Nei giorni precedenti la Pasqua, poi, le nonne, mitiche fate in carne ed ossa, con la bacchetta magica della loro atavica saggezza, regalavano a piene mani il sorriso ai nipoti con un gesto traboccante affetto.  Icone di sacrifici e fatiche inenarrabili, spampanate anzitempo nei corpi per i pesanti lavori della campagna, gli sciabordanti tonfi delle nude braccia negli schiumanti freddi mastelli di legno, la laboriosa accensione della fumigante legna, i frequenti viaggi con i secchi alla lontana fontana pubblica, il rammendo di ruvide calze ed indumenti grossolani e… la conflittuale convivenza con artrosi, reumatismi e dolori alla schiena! Ingobbita.

Perciò, si rivolgevano all’unica o a quella più disponibile, fra le numerose figlie sposate, e la pregavano sommessamente di realizzare le scarcelle per tutti i nipoti, ed anche per figli, nuore e generi. Alle spese, doloroso sacrificio finanziario, avrebbero provveduto di tasca propria.  Perciò, subito, a capo chino e con circospezione, slegavano il nodo del fazzoletto e prelevavano spiccioli, per pagare il fornaio grondante nera fuliggine. Poi, fornivano uova, zucchero, farina, latte, olio.

La giovane pasticciera prescelta non si lasciava pregare, anche se sapeva che non l’attendeva una passeggiata in un campo di papaveri e margherite. Le culle, allora, pullulavano di bambini. Quelli di un anno o poco più, a quattro zampe, di cui una per la propulsione, saettavano, ronzando intorno alla gonna materna, su mattoni di cemento bianchi e rossi o sconnesse basole di calcare.

Sulle strade, polverose e bianche, scorrazzavano scalzi o con scarpe che il ciabattino conosceva bene per averle più volte risuolate, i più grandicelli. Spesso monelli, dalle ginocchia eternamente sbucciate, scagliavano furtivamente sassi, nascondendo la mano, contro la vetrinetta della vecchietta brontolona che, precipitatasi sull’uscio con la ciabatta in mano, lanciava, dalla bocca sdentata, stridule imprecazioni “Vin dd, sbulèch, ca t sciascianasc i capidd e tt teir i recch. Ma moch vat a memt…ngile deic quett!” Vieni qua, mascalzoncello, ché ti scompigli i capelli e tiri le orecchie. Ma non appena mi imbatto in tua madre… gliene dirò quattro!

La figliola, sacrificale, era, però, compiaciuta di assecondare la timida richiesta materna e congiuntamente di rendere felici figli e nipoti… fratelli e sorelle, cognati e cognate. Si offriva per la famiglia, allargata, l’occasione per riannodare legami di sangue, “che non diventa mai acqua”. L’eredità poi… avrebbe rotto l’incanto.

I bambini, dai più piccoli ai più grandicelli  partecipavano alla realizzazione della propria scarcella, mentre le papille dell’immaginazione fibrillavano. Urla, risate, baruffe e… scompiglio. Era divertente impiastricciarsi le mani, impolverarsi reciprocamente, ed una nuvola di farina planava polverosa su gonne, calzoncini e capelli.

Ottenuta la pasta frolla, aromatizzata da scorza di limone, con il mattarello di legno si stendeva di volta in volta un’ampia superficie piana, sulla quale veniva adagiato il prezioso modellino di carta. Con la punta di un coltello, poi, si disegnava una ciambella, recinto di una croce. Al centro, immobilizzandolo con cordoni di pasta, un uovo. Segno di rinascita e simbolo pasquale.

Jpeg

Ritornate le teglie dal forno, quando la luce del tramonto soffondeva nella stanza un colore ambrato, glassa, di albume e zucchero, innevava le scarcelle, ed una provvidenziale pioggia di codette colorate la infiorettava.

Da tempo, quel clima di festa si è dileguato. È gratificante, oggi, fare incetta di uova di cioccolato, che racchiudono sorprese realizzate in remote parti del mondo da bambini ed adulti schiavizzati dieci, dodici ore al giorno per un dollaro.

I genitori più consapevoli, di ieri e di oggi, hanno continuato a rinverdire le tradizioni di una volta, persino a potenziarle.  Vengono prodotte con le proprie mani scarcelle, colombe pasquali e pastiere. Assieme agli figli, spesso unici, realizzati fioriti alberelli pasquali, imperlati di ovetti e farfalle. Decorati, gusci di uova con personaggi dei fumetti. Uova di cioccolato, nascoste per la casa, e parte la caccia al ritrovamento. Nascono meravigliose rose di carta crespa.  I libri, divenuti finalmente generi di prima necessità, letti ad alta voce, da piccoli e grandi in una magica luce soffusa. Per alcune ore, gli smartphone riposano in pace.

Sulle tavole imbandite, la carne comincia responsabilmente a scarseggiare, riducendo la cornucopia di strazianti belati, muggiti, nitriti di esseri viventi orrendamente ingozzati di mangimi ogm carichi di ormoni, spietatamente torturati e macellati.

La crisi economica dell’impietoso liberismo selvaggio, sta dando una mano. Forse, un domani non remoto, l’attanagliante consumismo, diverrà un flebile ricordo e la poesia delle cose semplici, catalizzante rapporti umani autentici, tornerà a baluginare.


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Percorso scolastico. Scuola media. Liceo classico. Laurea in storia e filosofia. I primi anni furono difficili perché la mia lingua madre era il dialetto. Poi, pian piano imparai ad avere dimestichezza con l’italiano. Che ho insegnato per quarant’anni. Con passione. Facendo comprendere ai mieli alunni l’importanza del conoscere bene la propria lingua. “Per capire e difendersi”, come diceva don Milani. Attività sociali. Frequenza sociale attiva nella parrocchia. Servizio civile in una bibliotechina di quartiere, in un ospedale psichiatrico, in Germania ed in Africa, nel Burundi, per costruire una scuola. Professione. Ora in pensione, per anni docente di lettere in una scuola media. Tra le mille iniziative mi vengono in mente: Le attività teatrali. L’insegnamento della dizione. La realizzazione di giardini nell’ambito della scuola. Murales tendine dipinte e piante ornamentali in classe. L’applicazione di targhette esplicative a tutti gli alberi dei giardini pubblici della stazione di Barletta. Escursioni nel territorio, un giorno alla settimana. Produzione di compostaggio, con rifiuti organici portati dagli alunni. Uso massivo delle mappe concettuali. Valutazione dei docenti della classe da parte di alunni e genitori. Denuncia alla procura della repubblica per due presidi, inclini ad una gestione privatistica della scuola. Passioni: fotografia, pesca subacquea, nuotate chilometriche, trekking, zappettare, cogliere fichi e distribuirli agli amici, tinteggiare, armeggiare con la cazzuola, giocherellare con i cavi elettrici, coltivare le amicizie, dilettarmi con la penna, partecipare alle iniziative del Movimento 5 stelle. Coniugato. Mia moglie, Angela, mi attribuisce mille difetti. Forse ha ragione. Aspiro ad una vita sinceramente più etica.