
«Vescovo fatto popolo», Óscar Arnulfo Romero è l’icona della Chiesa che si converte e «ama la gente, i poveri soprattutto, e Gesù Cristo. Il resto non conta nulla»
Parola di Óscar Arnulfo Romero, da ieri, santo: «Se mi uccidono, risorgerò nel popolo»! E un sicario lo uccide, a San Salvador, il 24 marzo 1980, mentre celebra l’eucaristia nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, appena pronunciate le parole offertoriali «in questo calice il vino diventa sangue. È il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio darci il coraggio di offrire il nostro sangue per la giustizia e la pace del popolo».
«Vescovo fatto popolo», secondo don Tonino Bello, san Romero è l’icona della Chiesa che si converte e «ama la gente, i poveri soprattutto, e Gesù Cristo. Il resto non conta nulla». Chiesa di parte. Chiesa della prossimità solidale che si apre alla profezia. Chiesa a caro prezzo: per questo viene proclamato santo. Nel popolo è già risorto da un pezzo.
Vescovo fatto popolo
La sua vicenda terrena è nota: nasce in El Salvador, il più piccolo stato dell’America Centrale, governato per cinquant’anni – dal 1932 al 1984 – da regimi militari. Studia teologia a Roma, dove viene ordinato sacerdote negli anni infuocati del secondo conflitto mondiale. Rientra in patria, dove lo attende una brillante carriera ecclesiastica. Viene infatti considerato conservatore e tradizionalista, e come tale accede all’episcopato e diventa segretario della Conferenza episcopale salvadoregna. Esercita il proprio ministero nel «paese delle quattordici famiglie», dove la terra è concentrata nelle mani di pochi possidenti terrieri protetti dai militari, mentre la maggior parte della popolazione attiva è costituita da campesinos impegnati in lavori stagionali nelle piantagioni di canna da zucchero, caffè e cotone, con paghe che non superano i 15 colones al mese, poco più di 6 dollari. Nasce la guerriglia. Il governo militare reprime con violenza qualsiasi malcontento o malessere sociale. La disoccupazione è alle stelle. Ai più deboli vengono negati i diritti primari e l’ingiustizia si consuma come carbone al fuoco. Alcune voci ecclesiali condividono, però, le disavventure degli ultimi, disturbano i potenti e provocano indignazione. L’assassinio del gesuita Rutilio Grande, grande amico di Romero, e di due campesinos a lui vicini è all’origine della “conversione”. L’arcivescovo proclama tre giorni di lutto, denuncia i poteri istituzionali alla Corte suprema, istituisce una commissione diocesana per la difesa dei diritti umani. Nelle omelie domenicali reclama una società più giusta e una più equa spartizione delle ricchezze. I poveri gli si stringono intorno, i potenti cominciano a minacciarlo minacciano. Alle tante storie di sofferenza si aggiunge quella di Marianela Garcia Villas. Schierata con le classi popolari, ne difende i diritti da giovane avvocato. Nel corso di una manifestazione di campesinos viene arrestata e poi violentata in carcere. Romero la ascolta e denuncia l’accaduto. Le sue celebrazioni sono affollate. I governi militari si alternano a colpi di stato, senza alcuna apertura democratica. La Chiesa vede intensificarsi gli attacchi… fino al martirio del «vescovo fatto popolo», che, sottolinea Papa Francesco, «non è soltanto nel momento della morte: inizia prima, con le sofferenze per le persecuzioni, e continua posteriormente, perché non bastava che fosse morto: è stato diffamato, calunniato, infangato».
Don Tonino Bello e mons. Romero
Negli anni Ottanta, non vi è vescovo europeo che risulti maggiormente attratto e faccia riferimento con tanta insistenza e profondità a mons. Óscar Arnulfo Romero quanto don Tonino Bello, vescovo di Molfetta dal 1982 al 1993 e presidente di Pax Christi Italia dall’85 al ’93. Tanto che mons. Vincenzo Paglia, postulatore della causa di canonizzazione di Romero, propone nel 2013 che i due vengano proclamati santi contemporaneamente: «perché Gesù gli apostoli li manda sempre a due a due».
Ecco che la vigilia del 7° anniversario del martirio (23 marzo 1987), don Tonino ricorda mons. Romero a Roma, nella Basilica dei Santi Apostoli, che custodisce le reliquie degli apostoli Filippo e Giacomo, indicandolo come «vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia e della pace». Sottolinea gli effetti salvifici della parola di Dio «nel santo vescovo salvadoregno» che ha vissuto la spiritualità dell’esodo (passando dalla fede intimistica, senza sussulti, a quella che libera in senso comunitario), la spiritualità del dito puntato (che indica la via di Cristo giorno dopo giorno, nell’incalzare degli eventi) e la spiritualità del servo sofferente (che esprime passione per Dio e per l’uomo: verità e carità, professione di fede e testimonianza di vita).
Nel 1989 don Tonino evoca Romero nel messaggio natalizio, come interprete delle sofferenze dei popoli: «Grazie, Signore, nostra giustizia, Dio dei violentati, che il Natale di quest’anno lo celebri nelle casupole del Salvador impastate di fango e di lacrime. Grazie perché poni la tua culla all’incrocio dei barrios intrisi dal sangue dei profeti: quello antico e non ancora coagulato di Rutilio Grande e di Romero, e quello ancora caldo di Ellacuria e dei suoi compagni di martirio».
È il preludio del viaggio che don Tonino farà dopo qualche mese in El Salvador, nel decimo anniversario del martirio di Romero (24 marzo 1990) insieme ad altri vescovi: mons. Luigi Bettazzi di Pax Christi Internazionale, mons. Roger Michael Mahony arcivescovo di Los Angeles e poi cardinale, mons. Ivo Lorscheider vescovo brasiliano di Porto Alegre, mons. Pedro Casaldáliga vescovo brasiliano di São Félix, mons. Maurice Taylor vescovo di Siracusa negli USA, il guatemalteco mons. Gerardo Flores vescovo di Vera Paz, in presenza di mons. Arturo Rivera y Damas arcivescovo di San Salvador subentrato a Romero. Tutti in preghiera sulla tomba del vescovo martire, in riflessione sulla sua figura di pastore, concelebranti in suo suffragio nella chiesa madre della capitale, in visita alla piccola abitazione.
La casa dove ha vissuto mons. Romero, dista non più di settanta metri dalla cappella in cui ha abitualmente celebrato, costruita dalle suore carmelitane dopo la nomina ad arcivescovo. Mentre l’abitazione è in costruzione, Romero dorme in una piccola stanza dietro l’altare della cappella dove è stato assassinato. La stanza di Romero colpisce per la sua essenzialità: non più di cinque metri quadri, una piccola scrivania con sopra la copia in gesso della Pietà, la macchina da scrivere IBM a tasti meccanici, un registratore Bigston a cassetta anni ’70, con microfono incorporato, necessario per registrare il proprio diario: una pratica di tutta la vita, incrementata negli ultimi anni e che solo il martirio interrompe. Un’unica foto sul comodino, il ritratto di Paolo VI, e alla parete un portaritratti in vetro con nove fotografie, tutte con il “suo” papa: Montini, per l’appunto.
Poi i prelati in marcia per le strade della capitale, insieme a diecimila manifestanti, «il popolo di Romero», in totale assenza del personale governativo, come sottolinea il quotidiano el Nuevo Herald.
Visita introdotta e seguita da due importanti eventi. In partenza per El Salvador, don Tonino chiede ai confratelli vescovi italiani di vivere, nell’anniversario del martirio, una particolare giornata di preghiera «per implorare da Dio la pace per il Salvador, per esprimere vicinanza alla Chiesa martire in America Latina, per richiamare l’attenzione del nostro popolo sui nodi fondamentali della libertà, dei diritti umani, della giustizia, della scelta preferenziale per i poveri». Dopo due anni, la “giornata” viene istituita dal Pontefice ed estesa a tutta la Chiesa cattolica come Giornata mondiale di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, «per ricordare quanti hanno immolato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il Vangelo fino alle estreme conseguenze».
Infine, di ritorno da San Salvador, o meglio dai luoghi visitati in quel contesto – barrios compresi – don Tonino porta con sé il Diario di mons. Romero, ricavato dalla sbobinatura del nastro magnetico a cui il Pastore ha affidato la registrazione, dal 31 marzo 1978 al 20 marzo 1980, delle proprie inquietudini e paure, delle angosce e speranze maturate negli ultimi tormentati anni di storia salvadoregna; una sorta di riflessione parlata, con cui partecipa la propria incrollabile fede e il progressivo affinarsi della coscienza profetica. Diario che, tradotto dallo spagnolo a cura di Olimpia de Gennaro, Mario Adessi e Maria Serena Campanalunga, don Tonino affida alle edizioni la Meridiana per la pubblicazione, che avviene puntualmente nel giro di un anno, nel 1991.
Rilevante, dunque, l’assonanza tra i due presuli, che disegnano – l’uno martire, l’altro confessore della fede – lo stesso modello di Chiesa.
Chiesa di parte
«Non sono in lotta con il governo, mi preoccupa solo di far notare a tutti che c’è un popolo che soffre, e il governo non fa niente per questo popolo. La lotta è fra il governo e il popolo. Io sono dalla parte del popolo che è più debole e sofferente», afferma mons. Romero.
E don Tonino Bello: «Non mi interessa sapere chi sia Dio. Mi basta sapere da che parte sta. Noi, oggi, ci stiamo fatalmente attardando nello spiegare al mondo secolarizzato e indifferente chi è Dio. Se invece sapessimo mostrare, con scelte comunitarie e personali, che Dio sta dalla parte degli ultimi sempre, il sogno di cieli nuovi e di terra nuova diventerebbe presto gaudiosa realtà».
Chiesa della prossimità che si apre alla profezia
Mons. Romero: «Abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz’acqua, senza luce e senza scuole. Abbiamo incontrato gli operai privi di diritti sindacali, licenziati dalle fabbriche e completamente alla mercé dei freddi calcoli dell’economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri, la cui miseria supera ogni immaginazione, con l’insulto permanente dei palazzi vicini. In questo mondo disumano, la Chiesa della mia arcidiocesi, sacramento attuale del servo sofferente di Jahweh, ha cercato di incarnarsi».
Gli fa eco don Tonino Bello: «Vescovo Romero, prega per noi perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, a tutti coloro che faticano a vivere. E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove».
Chiesa a caro prezzo
«Sì, possono uccidermi, anzi mi uccideranno. Ma se uccidono me, resterà sempre il popolo. Un popolo non lo si può ammazzare! Questo è il fondamento della grande speranza. Io sono sempre servitore, un vescovo convertito al popolo, al quale devo prestare servizio, perché so che nel popolo ho incontro Cristo e la verità del Vangelo».
E don Tonino Bello: «Si direbbe che oggi, nei grandi “magazzini” della fede cristiana, puoi trovare di tutto: teologi, studiosi della religione, biblisti, operatori pastorali, predicatori, liturgisti, tecnici della catechesi… Ma se chiedi un “martire”, metti in crisi tutta l’azienda. Martiri! Cioè testimoni. Cioè persone che si vendono l’anima per annunciare con la vita che Gesù è il Signore, ed è l’unico. Gente disposta a legare la zattera della propria esistenza, invece che agli ormeggi rassicuranti del denaro e del potere, a una tavoletta fluttuante che ha lo spessore del Vangelo e la forma d’una croce».
Ecco Óscar Arnulfo Romero y Galdàmez, meticcio originario di Ciudad Barrios nella provincia salvadoregna di San Miguel, oggi nella gloria dei santi insieme a don Tonino Bello de finibus terrae: l’uno già proclamato, l’altro non ancora, ma ritenuto tale vox populi.
Entrambi «dalla fine del mondo», come papa Francesco che ha promosso, nel 2018, la santità del martire Romero dopo aver onorato, in visita pastorale nella terra natale e in quella del ministero episcopale, la figura di mons. Bello, confessore della fede. Entrambi unti dallo Spirito. Entrambi vescovi «fatti popolo».