Un anno dalla sua morte, lo scorso 25 dicembre.
Un giornalista sul finale del documentario “Freedom” gli chiede per cosa desiderasse essere ricordato e lui risponde: «Come un autore»
La musica è l’acqua che riempie il bicchiere del cuore quando ha sete e ogni parola in più cadrebbe superflua perché ciò che scuote un uomo, ne lascia immobile un altro. La musica è personale. Un vecchio disco in vinile gira e saltella sotto la puntina, suona che sa di vecchio e consumato, ha un qualcosa che rende speciale un brano ascoltato tante volte. Mi rendo conto che uno dei più grandi artisti che la musica abbia voluto, George Michael, è morto da un anno. È come se fosse appassito il fiore che ho raccolto in ricordo di una primavera che stava passando, nel vaso sul davanzale dell’unica finestra di casa mia che guarda al sole.
Sto ascoltando “They won’t go when I go” di Stevie Wonder, una canzone del 1974 inclusa nell’album “Fulfillingness’Firts Finale, cantata da George Michael: un capolavoro eseguita da lui. Il testo è profondo, struggente e va tradotto per chi non conosce l’inglese. Dicono l’abbia cantata per gridare al mondo il suo dolore per la morte del compagno Anselmo Feleppa cui dedicherà nell’album Older “Jesus to a child”.
Una curiosità: Stevie Wonder quando seppe che George Michael era bianco ebbe un sussulto, fu piacevolmente sorpreso.
Non è la prima canzone di Stevie Wonder che George canta e fa sua, in particolare nella ristampa del suo primo album da solista “Faith” del 1987 dopo l’esperienza degli Wham! sono presenti “I believe when I fall in love” e “Love’s in need of love today”: la prima del 1972 inserita nell’album “Talking Book” e la seconda del 1976 inserita nell’album “Songs in the key of life” dell’artista di colore cieco.
Il mio cuore, lo confesso, in particolare è rimasto sepolto sotto le macerie della casa costruita da un album di George Michael di cover uscito a dicembre del 1999 intitolato “Songs from the Last Century”: lo ha prodotto insieme a Phil Ramone e contiene interpretazioni di classici pop tra cui Roxanne dei Police, Brother Can You Spare a Dime, Miss Sarajevo, The First Time Ever I Saw Yuor Face. Parlo di macerie perché ascoltandolo mi chiedo cos’altro si possa ancora chiedere in più ad un artista, tutto il resto sembra ristagnato nella mediocrità.
Hanno scritto di tutto su di lui ed io sicuramente non aggiungerò nulla di più sensato e concreto, mi fido e mi lascio trasportare da quella voce raffinata e dolce, dalla timbrica unica, dalla dizione perfetta, dal controllo maturo degli acuti.
Nel documentario “Freedom”, lo potete guardare in streaming su Now Tv, uscito postumo, cui George Michael ha lavorato sinché ha potuto, co-dirigendolo e provando ad essere narratore, lo si apprezza soprattutto per la sua battaglia personale per la difesa della privacy degli artisti: era stanco di diventare carne da macello e capro espiatorio di gente affamata di pettegolezzi.
Avrebbe voluto essere famoso, riuscendoci, ma anche rispettato e amato. Faceva fatica a gestirsi il successo e arrivò a compromettere il rapporto con la sua etichetta discografica, la Sony, perché non se la sentiva più di promuovere i suoi album: si sentiva condannato ala schiavitù professionale.
Un giornalista sul finale del documentario gli chiede per cosa desiderasse essere ricordato e lui risponde: «Come un autore».
Vinse due premi agli American Music Awards solitamente dedicati agli artisti di colore e questo la dice lunga sulla talvolta superficiale cultura americana musicale.
Frank Sinatra gli scrive, nessuno sa per certo fosse veramente lui, delle parole che lo feriscono: «Rilassati, basta parlare della tragedia del successo perché la vera tragedia è quando la gente smette di venire ai tuoi concerti, quando sei costretto a cantare per la signora delle pulizie in uno squallido locale».
Il suo album preferito è “Older”: racchiude la musica con cui voleva potersi liberare dei tanti dolori provati nella vita.