
“IL LUPO PERDE IL PELO MA NON IL VIZIO”
Sono profondamente rincuorato dal moto di solidarietà che sta animando i paesi europei in questo momento. Sono profondamente rincuorato per l’assistenza che in questo momento viene fornita ad un popolo che, dalla sera alla mattina, si è trovato dalla vita normale alla morte addosso, travestita da missili e bombe.
Nell’orrore degli attacchi militari e delle macerie, oggi ci viene mostrato che non tutto può essere manipolato dalla tragedia della guerra, che anche nel profondo nero della disperazione i valori umani possono accendere una luce di speranza. E oggi, alla frontiera polacca e rumena, quell’umanità si sta mostrando in tutta la sua forza e caparbietà.
Dispiace, tuttavia, che tra la bellezza di queste azioni ci sia qualcosa che scricchiola, che ci fa rendere conto che, se una guerra può scoppiare nel giro di una notte, nei medesimi tempi non possono modificarsi talune abitudini.
Nei giorni passati si è sentito sempre più assistito a episodi di razzismo da parte delle guardie di frontiera, tramite video postati sui social, alcune dichiarazioni rilasciate dall’Unione Africana, dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e della ONG Human Rights Watch, e alcuni servizi giornalistici, tra cui quelli del TG2 e di Sky TG 24.
Una delle testimonianze più diffuse è quella di Jessica, una studentessa nigeriana in fuga dall’Ucraina, che si è vista bloccata alla frontiera ucraina da guardie ucraine mentre si accingeva a salire su un bus che le avrebbe consentito di entrare in Polonia. Nonostante abbia mentito dicendo di essere incinta, le è stato ulteriormente risposto “Only Ukranian, that’s all” (“Solo ucraini, questo è tutto”). Dopodiché, è dovuta tornare indietro e prendere un treno (pagato a caro prezzo) per arrivare in Ungheria, dove attualmente si trova.
Su Twitter, inoltre, sono stati postati diversi video, tra cui vi sono due particolarmente eloquenti: nel primo, una giovane donna africana viene spinta letteralmente fuori dal treno dalla polizia ucraina per permettere a una ragazza bianca di salire; nel secondo, un ragazzo africano viene picchiato dalla polizia polacca perché aveva superato il confine senza farsi identificare.
Molte di queste persone, peraltro, oltre a scappare dal conflitto, intendevano semplicemente attraversare la frontiera per poter prendere un aereo che li avrebbe riportati ai loro paesi di provenienza.
“Il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, recita un famoso proverbio.
E in effetti, i paesi dell’Europa Orientale (i cosiddetti “paesi di Visegrad”) non sono nuovi a tali episodi: ricordiamo, infatti, le percosse inferte ai migranti, i fili spinati e i muri innalzati da Ungheria e Polonia per impedire il passaggio del confine.
Tali condotte sono indubbiamente contrarie al diritto internazionale, a cui sono soggetti, loro malgrado, anche i paesi di Visegrad.
Innanzitutto, all’art. 3 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, ai sensi della quale “Gli Stati Contraenti applicano le disposizioni della presente Convenzione ai rifugiati senza discriminazioni quanto alla razza, alla religione o al paese d’origine”, e, in secondo luogo, all’art. 5 della Convenzione Internazionale sull’eliminazione della discriminazione razziale, che, tra le altre disposizioni, prevede che “gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica”, anche con riguardo al “diritto alla sicurezza personale ed alla protezione dello Stato contro le violenze o le sevizie da parte sia di funzionari governativi, sia di ogni individuo, gruppo od istituzione”.
E, si badi, tali norme internazionali sono “inderogabili” e valide in ogni tempo, anche durante un conflitto armato.
Non è necessario andare così lontano, ma basta rimanere entro i confini italiani per assistere a dichiarazioni disarmanti e condannabili al pari delle violenze alla frontiera.
Alcuni giorni fa, alcuni sindaci leghisti dell’Umbria si sono resi disponibili ad accogliere i profughi “ucraini” (ci tenevano particolarmente a sottolinearlo), qualcuno in Senato si è particolarmente premurato di accogliere incondizionatamente i profughi “che scappano dalla guerra vera” e qualcun altro si è speso nel sottolineare il dovere di accoglienza di popolazioni con cui si condividono le stesse radici cristiane, perché la Galizia (regione ucraina) faceva parte del cattolico Impero Austro-Ungarico.
D’altro canto, non ci si dovrebbe sorprendere di fronte a tali affermazioni, perché non sono altro che lo specchio di una società ormai sedimentatasi perfettamente: noi tutti ci stiamo giustamente indignando per l’invasione dell’Ucraina, ma siamo rimasti ipocritamente in silenzio mentre le guerre uccidevano (e uccidono) esseri umani, magari distanti dalle nostre culture e lontani dalle nostre case, ma pur sempre esseri umani.
Tutto questo ci ha portato a distinguere, inevitabilmente, tra guerre di serie A e guerre di serie B, profughi di serie A e profughi di serie B.
Ci prodighiamo giustamente nell’accoglienza dei profughi ucraini, ma allo stesso tempo lasciamo che i barconi affondino nel Mediterraneo, che gruppi di individui siano tenuti in ostaggio alla frontiera balcanica.
I muri e le percosse di oggi non sono altro che la conseguenza di tutto questo.
Nei giorni scorsi, tuttavia, il Consiglio dei Ministri dell’Interno dell’UE è giunto ad uno storico accordo. Per la prima volta, verrà attivato il meccanismo di asilo temporaneo (della durata di 1 anno rinnovabile) contenuto nella direttiva 2001/55/CE approvata dal Consiglio Europeo il 20 luglio 2001 ai profughi provenienti dall’Ucraina: essi potranno beneficiare di un permesso di soggiorno rilasciato immediatamente e di accesso libero ad assistenza medica, fino a quando sarà possibile il rimpatrio sicuro nel paese d’origine.
La ministra Lamorgese, presente al Consiglio a Bruxelles, ha dichiarato che sarà concessa protezione a ucraini e non ucraini che risiedono stabilmente in Ucraina.
C’è da essere soddisfatti, ma non troppo, perché la direttiva, nel suo testo, rinvia al principio di non discriminazione contenuto nell’art. 21 della Carta di Nizza, anch’esso inderogabile.
Per cui, ad oggi, non è chiaro quale sarà il destino dei profughi provenienti dalle guerre “finte” o a coloro che sono profughi per altri motivi (carestie, persecuzioni, catastrofi naturali ecc.), ma il risultato di Bruxelles non è altro che frutto di una mediazione.
Indovinate grazie a chi questo compromesso si è reso necessario. Proprio la Polonia e l’Ungheria, i paesi di Visegrad, quei paesi che oggi sono solidali con gli ucraini e “lupi” con tutti gli altri.