Il ritorno della filosofia della natura

È un dato di fatto che il pensiero filosofico quando è stato in grado, cosa che del resto fa parte della sua storia,  di porre le grandi domande intorno al perché del reale col vedervi una intrinseca rugosità, è pervenuto a sviscerarne aspetti anche eterogenei che poi ha cercato di tradurre con l’uso euristico della ragione in delle sintesi con forte impatto teoretico che ne hanno scandito le diverse tappe, da quella originaria greca a quella kantiana per arrivare al pensiero complesso; all’interno di tale turbolenta navigazione sono sorti così percorsi di ricerca come la filosofia della natura che pur con alterne vicende ha cercato di fornire strumenti conoscitivi in grado di darci una visione globale dei problemi che concernono tale specifico campo quali il determinismo o l’indeterminismo, le idee di spazio e di tempo, la causalità o il caso, continuità e discontinuità, la natura della materia come la sua fissità o evoluzione, aspetti finalistici o meno. Pur essendosi sviluppati grazie alla cosmologia che nel porre la domanda sull’origine dell’universo ha cercato di capirne il senso e la struttura, essi fanno parte ormai del lessico scientifico più in generale con l’assumere in ogni singola scienza  un significato preciso, ma parziale e delimitato fatto che conferisce loro un grado di maggiore oggettività e che, come diceva Federigo Enriques, li rende nel loro ambito sempre ‘più veri’  dopo un sofferto ‘travaglio dei concetti’, poi oggetto della riflessione storico-epistemologica.

Se poi si tiene presente metodologicamente lo stretto rapporto che ne consegue fra scienza e filosofia, non solo esse si arricchiscono reciprocamente sul piano dei rispettivi contenuti veritativi, ma si rafforzano come ‘pensiero’ come lo stesso Enriques e poi altri sulla sua scia hanno evidenziato, come ad esempio Ludovico Geymonat nella sua monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico; anzi si potrebbe dire con Italo Mancini, figura di filosofo-teologo, che un pensiero deve essere necessariamente ‘forte’  col suo portato anche metafisico, altrimenti non è un pensiero, senza necessariamente tradursi in ideologia. E la filosofia della natura ha giocato storicamente un tale ruolo non secondario nello sviluppo del pensiero filosofico-scientifico in particolar modo, pensiero di per sé forte  per la ricca dote di ‘eventi di verità’, a dirla con Alain Badiou, che è stato in grado di produrre  con i  connessi ‘rischi metafisici’  come ha evidenziato Gaston Bachelard nelle sue analisi delle dottrine relativistiche e della  meccanica quantistica che non a caso hanno rivoluzionato il nostro modo di vedere il mondo e di conoscerlo, come è avvenuto con la stessa teoria dell’evoluzione. E ciò è avvenuto in primis  nel mondo greco, dove aver posto il problema della natura come problema filosofico generale ha permesso lo sviluppo dell’episteme o conoscenza scientifica, fatto che poi per il progressivo sviluppo delle singole scienze dalla fisica alla biologia ha portato a ridimensionare la filosofia della natura, vista solo come una semplice speculazione e non più in grado di soddisfare i crescenti appetiti conoscitivi con l’ausilio di modelli sempre più sofisticati ma ben delimitati.

Ma grazie agli studi storico-epistemologici  condotti in questi ultimi tempi da più parti, con la rivalutazione in sede epistemica delle stesse idee metafisiche e anche a volte con la presa d’atto della  necessità di avere a disposizione anche nell’ambito della ricerca scientifica delle stesse Weltanschauungen  o visioni generali del  mondo, di cui l’uomo come diceva Francesco Barone è un continuo ‘animale facitore’, sta emergendo anche sotto la spinta di eventi planetari la necessità  ripensare la natura come una vera e propria ‘totalità vivente’ nel senso indicatoci da Michel Serres all’interno di una nuova e più articolata filosofia della natura; si è distinto in tal senso il percorso di una figura poco nota come Raymond Ruyer (1902-1987), autore di oltre venti volumi anche se il suo nome è legato per lo più al bet seller, La gnosi di Princeton del 1974. Già a partire dagli  anni passati in un campo di concentramento tedesco e forse non a caso, aveva posto al centro delle sue riflessioni la necessità di una “architettura metafisica di impatto teoretico e tenace originalità, che ricorda la filosofia della natura rinascimentale e romantica e la teologia speculativa”, come afferma nell’ampia introduzione ‘Una metafisica della forma’ il giovane studioso Daniele Poccia che ne ha tradotto in italiano alcuni scritti  compresi nel volume La superficie assoluta (L’Aquila, Textus Edizioni 2018) apparso in una collana, diretta da  Rocco Ronchi, dal significativo titolo ‘Filosofia al presente’.

Ma ciò che innanzitutto è da sottolineare, per capire meglio la strategia teoretica messa in atto da Ruyer e la stessa cruciale idea di ‘superficie assoluta’ che ne permea l’intero tragitto di vera e propria filosofia della natura, come Poccia evidenzia, è il fatto che esse sono il risultato di un lungo confronto critico con le scienze del vivente ed in particolar modo con l’embriologia, considerata scientia scientiarum in quanto modello per capire tutti i processi di formazione delle ‘forme vere’ come l’embrione che è “sempre sul punto di essere” dove “la forma si conosce nel mentre si fa”. Ma ciò che caratterizza in particolar modo il percorso di tale singolare pensatore, che tra l’altro si è interessato di meccanica quantistica, come di cibernetica e di psicologia introspettiva e sperimentale, è la natura dell’informazione o, meglio, quella che Poccia chiama “concezione sistematica sull’informazione della natura” per spiegare gli “aspetti costitutivi dei processi psico-biologici” e “la formazione degli enti naturali come modo d’essere degli stessi”. In tal modo la sua è una particolare forma di ‘filosofia biologica’  più che una filosofia della biologia,  che prende a modello l’embriogenesi rivolta a capire la “natura che si fa incessantemente attraverso i suoi incrementi, una natura che si conosce solamente accrescendola e accrescendosi”. La sua opera La genesi delle forme viventi del 1958 per Poccia si presenta quasi come “un’embrio-logia speculativa che pone a fondamento il carattere da parte a parte incoativo che contraddistingue il vivente che si sta formando”, quasi una ‘dottrina delle novità eterne’ per usare un’espressione di origine cartesiana.

La stessa idea di superficie assoluta viene a coincidere con la stessa coscienza implicita nel costituirsi del vivente e nei suoi processi spazio-temporali, che Poccia chiama “una coscienza senza io che informa e si informa incessantemente, in un continuo  andirivieni tra potenziale e attuale, valori e tecniche, memoria e innovazione”, processo che “trova il suo modello più preciso in quel fenomeno biologico ancora enigmatico che è l’embriogenesi”. Ma la lezione che si può trarre dalla filosofia della natura di Ruyer,  ed in tal modo ci si allontana dallo spirito analitico di tanti lavori in auge nel pensiero filosofico del ‘900 che mirava a scomporre i dati empirici visti nella loro estrema particolarità senza aggiungervi nulla con la stessa ragione, è che essa  si avvale di un metodo di pensiero non comune, poco praticato e basato sulla ricerca sistematica di isomorfismi col rimanere, come egli stesso afferma,  “fedele ad un metodo fondamentale ed essenzialmente scientifico, che ho sempre applicato cercando solamente di generalizzarlo”; tale metodo utile per indagare aspetti in comune tra fenomeni si rivela prezioso per vedere se hanno anche “una natura comune” e deve essere più esteso dell’impiego di modelli meccanici, il cui “fallimento in embriologia deve condurre a cercare isomorfismi dello sviluppo in altri domini”, come la linguistica, lo studio delle tecniche e dei miti, l’etnografia, la psicoanalisi, saperi che “si prestano da se stesse a delle ricerche di isomorfismi”.

Questo vasto territorio è ritenuto da Ruyer una ‘miniera inesauribile’ per la stessa filosofia che non la sfrutta abbastanza, ma che in tal modo “potrebbe così bene collaborare con la scienza” in quanto “la verità è una. La conoscenza è scientifica o è falsa”; ma questo non comporta ritorni alla “filosofia scientifica alla Spencer”, a progetti hegeliani di “tradurre il testo dato dalle scienze “in una qualsivoglia lingua speculativa” o ad “una scienza dogmaticamente meccanicista che pretendeva di ridurre l’uomo al funzionamento di un sistema di particelle”. L’invito di Ruyer è quello di lavorare ad “una Filosofia-Scienza  indivisa, capace di criticarsi e di generalizzare se stessa – con o senza ‘specialista della generalità’- via via che il reale si rivela in tutta la sua inesauribile sottigliezza”; nello stesso tempo occorre prendere atto in maniera irreversibile,  con il metabolizzarlo una volta per tutte, del fatto che “la scienza è capace di riformarsi, non contro le sue verità sperimentalmente stabilite, non contro la filosofia vivente che collabora al contrario a queste riforme, ma contro i filosofi pseudo-scientifici che abusano degli aspetti superficiali delle sue teorie” con la pretesa di “fondare una conoscenza para-scientifica”.

Del resto “lavorando ad una Filosofia-Scienza” ci si pone  nell’alveo del  “vero classicismo filosofico” caratterizzato dal fatto  che da Platone passando per Descartes e Leibniz sino a Whitehead, Bergson e Husserl, “la corrente centrale della filosofia si è sempre volontariamente mescolata, se non confusa, con la corrente della scienza”; tutto ciò ha permesso  lo sviluppo parallelo della “tecnica derivata dalla scienza” che va liberata dall’uso ristretto e angusto dovuto all’avanzare della meccanizzazione industriale  per portarla sul piano della saggezza facendo tesoro delle stesse esperienze dei “riformatori religiosi” da Buddha a Gandhi, il cui “valore” si basa su “il presentimento di leggi che, pur portando su equilibri e dinamiche invisibili, sono altrettanto reali che le leggi dell’induzione elettromagnetica, e si prestano, come queste ultime, a una tecnica generalizzata sempre  perfettibile, a una Tecnica-Saggezza che fa tutt’uno con la Filosofia-Scienza”.

Merito del lavoro di Daniele Poccia è dunque quello di fornire al lettore italiano la possibilità di confrontarsi con una figura che ha avuto il coraggio teoretico di rilanciare con forza il dibattito sulla filosofia della natura e  di ripensarne il ruolo ‘dentro le pieghe della scienza’ a dirla con Ludovico Geymonat, di ridare al lavoro filosofico il suo tradizionale ma mai superato ‘compito eroico’ di presentarsi come ‘sintesi produttiva’, imperniata sempre sul crinale di un continuo rinnovamento nel senso indicatoci da Gaston Bachelard; e questo spiega una delle ragioni per le quali Raymond Ruyer è diventato  un punto di riferimento per altri protagonisti del Novecento filosofico come Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan e Gilles Deleuze.


Fontehttps://commons.wikimedia.org/wiki/File:Autoportrait_de_Raymond_Ruyer.jpg
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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.