Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

Alla richiesta di una spiegazione, di un significato del termine “quotidianità”, Google risponde così: la vita di ogni giorno nei suoi aspetti più comuni e dimessi, associata per lo più all’idea del contingente e del precario. Del resto «la vita fugge, et non s’arresta un’hora», direbbe Petrarca. E a proposito della fugacità dei giorni, che passano e ricordano all’uomo la sua precarietà, Montale esclama come nella vita stessa abbia incontrato spesso «il male di vivere».

Non è raro imbattersi in certi ragionamenti; così come non è inusuale né condannabile il bisogno di cercare spazi alternativi alla routine. Insomma l’uomo vide che tutto era vuoto, noioso e ripetitivo e disse: «Sia l’evasione!». E l’evasione fu. E l’uomo vide che era cosa buona. Parafrasando il racconto della creazione del primo capitolo della Genesi, la storia potrebbe più o meno terminare così.

Ma davvero la cifra del quotidiano è solo una monotonia deprimente, in grado di appiattire l’uomo su gamme sentimentali ed emotive oscure?

«La quotidianità è un modo d’essere dell’uomo anche quando questi si muove in una società evoluta e altamente differenziata», tuona giustamente Heidegger (colui che suggeriva di leggere il tempo in un’ottica più esistenziale per non subirlo). Dunque la dimensione del quotidiano è assolutamente imprescindibile: non esiste uomo o donna inquadrabile al di fuori di uno schema di strutturazione del tempo, di un ritmo di cose da fare, di una danza di gesti da attuare. Lo richiedono i progetti, i traguardi che ci tengono in vita, i volti con i quali siamo e desideriamo essere in relazione per costruire il presente e l’avvenire. Tutto questo ha l’odore e il sapore della costanza…e la costanza rimanda a quel “per sempre” così inusuale nell’oggi della precarietà, della paura del definitivo, del carpe diem.

La questione è ancora una volta legata al tempo: se non si può prescindere dalle cose da fare, occorre non lasciarsi divorare da esse; se bisogna agire speditamente, perché la vita è frenetica e a fine giornata si è chiamati a dare conto di alcuni risultati, urge non consumarsi nella fretta. Perché, finchè sarà così, il quotidiano assomiglierà sempre ad un macigno da caricare ogni mattina, ad una lista di cose senz’anima, nelle quali le braccia e la mente si muovono per produrre e il cuore immagina altro, cullandosi sul sogno dell’evasione e deprimendosi nel caso questa non si realizzi.

Ovviamente (con il solito disprezzo per i luoghi comuni) non si possono né si devono condannare quei momenti di svago, di divertimento, di riposo nei quali l’essere umano ritrova ristoro, pace ed energia. Ma il rapporto con la quotidianità va rivisto per evitare di soccombere e per allenare gli occhi a coglierne la bellezza nascosta, quella bellezza che ci parla di altre bellezze.

Quella dell’uomo, capace di meraviglie grandi nella vita ordinaria, miracoli che hanno il volto tenerissimo dei figli, l’odore della casa, delle piante del balcone e del cibo buono, la gioia della buona riuscita di un lavoro complesso in un ufficio di città; miracoli che restano tali anche quando a prendere il sopravvento sono la delusione, la noia, il rimpianto per qualcosa di irrisolto o degno di risoluzioni migliori. Perché dell’uomo non si butta niente. E anche questa è ecologia!

E poi la bellezza di Dio, un Dio innamorato del nascondimento, della semplicità, dell’uomo stesso, della quotidianità. Un Dio spesso cercato come alternativa alla routine, secondo un preoccupante crescente modello di fede, vissuta come “analgesico” della febbre del vivere, cui corrisponde l’assurdo diritto di trattare la sfera sacra unicamente come un rifugio spiritualista dalle fatiche e dalle contraddizioni carnali!

Un prete ucciso in Turchia, don Andrea Santoro, scrive così nel suo diario di Terra Santa: «Quanto è duro il tuo ministero a Nazaret Signore. Mi supera da ogni parte. Sento che è il cuore del tuo mistero, della tua rivelazione, è lo svelamento della tua gloria. È più inaccessibile della tua stessa morte, perché è l’aspetto meno eroico e meno visibile della morte. È la morte della morte. È il silenzio, il non esistere, il non contare. È la tua sottomissione, il tuo dipendere, il tuo essere superfluo e fuori dai grandi giochi. Nazaret, Signore, è la tua stoffa. O ti si capisce con l’uomo e il Dio di Nazaret o non ti si capisce».

Insomma «se la tua giornata ti sembra povera, non accusarla; accusa te stesso per non essere abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri» (R. M. Rilke).

 

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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)