I LIBRI VIVENTI DEL CPIA BAT TERZO EPISODIO

«È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato» (Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry, Reynal & Hitchcock, New York, 1943)

La Volpe spiega al Piccolo Principe, nel racconto di Saint- Exupéry, perché quella rosa che ha coltivato sia diventata la “sua” rosa e non una rosa qualsiasi: non potrà mai essere ai suoi occhi una rosa qualunque poiché lui è diventato il responsabile del suo benessere.

Certamente da bambini abbiamo la stringente necessità di legami di attaccamento sicuri ed esclusivi per assicurarci la sopravvivenza fisica e psicologica, ma è ugualmente vero che il bisogno di attaccamento permane anche nella vita adulta, pur diluendosi all’interno di rapporti umani più variegati, contraddistinti da maggior reciprocità. Costruiamo e consolidiamo la nostra identità, il senso di “chi siamo” anche e soprattutto attraverso le relazioni con gli altri e i ruoli che sentiamo di avere nei rapporti affettivi che con loro condividiamo. Una relazione è fonte di appartenenza, di identità e riconoscimento reciproco per entrambi i partecipanti che, proprio in virtù del rapporto che li lega, condividono determinate attese riguardo a ciò che ognuno si aspetta di ricevere e dare all’altro. Proprio come la rosa del Piccolo Principe, ogni rapporto umano ha bisogno di essere coltivato e nutrito, ha bisogno di cure: nulla può mai darsi per scontato e definito una volta per tutte; al contrario, è l’impegno e la volontà di entrambe le parti che permette ad un legame di mantenersi nel tempo, di crescere ed evolversi con i mutamenti delle persone coinvolte in un rapporto affettivo.

«Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata»: la Volpe insegna al Piccolo Principe i valori dell’attesa e della ritualità nei rapporti umani. Un legame affettivo esiste anche nella sfera della rappresentazione mentale di quel legame in ciascuno dei partecipanti, non solo sul piano della frequentazione fisica. Occorre conservare memoria del legame per avere consapevolezza della disponibilità affettiva dell’altro anche quando non è vicino fisicamente; significa anche imparare a desiderarlo.

Chi, come me, insegna, e in un CPIA in particolare, sa bene quanto sia di fondamentale importanza aver cura delle persone e delle diverse caratteristiche e storie di cui sono costantemente portatrici, delle loro molteplici identità. Con il suo racconto Tiziana ci conduce a riflettere sull’identità e su quanto abbia peso su di essa l’aver cura di qualcuno.

QUESTA SONO IO (30/04/2020)

Normalmente, presentarsi e parlare di se stessi potrebbe sembrare apparentemente  semplice, ma non lo è assolutamente per me, probabilmente perché nel farlo mi rendo conto d’imbattermi in contesti poco piacevoli che, comunque, costituiscono una “fetta” del mio passato, infatti, spesso, dalla pellicola dei miei ricordi che proietta, anche, a volte,  involontariamente, tratti ed esperienze che la vita riserva, avverto quel particolare bisogno di rimuovere quelli che sono stati i miei momenti più dolorosi, quelli che mi hanno resa più fragile, quelle situazioni “scomode” che hanno, per certi versi, deviato e alterato quello che avrebbe dovuto essere un normale percorso di crescita e sviluppo personale proprio perché in qualche modo hanno segnato e inciso indelebilmente, nonché cambiato, la mia esistenza.

Il giorno 28 Novembre del 1975, da nostro Signore Gesù Cristo ricevo il grande dono di essere affidata alla vita: entro a far parte del mondo con il nome Tiziana, nome che, tuttavia, né esprime né racconta niente sulla mia persona, ma, come scriveva Shakespeare in Romeo e Giulietta,  «ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo».

Sono nata a Trani, ho quarantatré anni, sono coniugata e madre di un unico figlio di nome Gabriele; difficilmente riesco a scegliere aggettivi che possano rappresentarmi,  giacché adoro più essere descritta, e sono della categorica convinzione che ciò che definisce ogni individuo traspare da ogni suo singolo gesto, dai suoi valori, dal suo modo di porsi e non da quello che dice ma da come lo dice: insomma, siamo quello che facciamo,  non quello che diciamo di essere! Non è, quindi, necessario aprirsi a tutti i costi per farsi conoscere, però nessun essere umano è un’isola, di conseguenza arriva per tutti l’esigenza di voler comunicare, ma è bene che lo si faccia nei momenti opportuni e con le persone di cui ci si possa davvero fidare.

Ritengo di essere una ragazza molto solare, gentile, positiva e, mi preme precisare, soprattutto cattolica. Provengo da una famiglia numerosa di cui sono la penultima di undici figli; a causa delle drastiche condizioni economiche, mio padre fu costretto ad emigrare in Germania dove è rimasto lunghi anni, lavorando nelle miniere e, solo una volta l’anno, aveva la possibilità di raggiungerci. Mia madre, contemporaneamente, con enormi sacrifici, cercava di crescere e accudire noi figli, grazie anche all’aiuto di mia nonna materna e, con la cultura del risparmio, del preparare tutto in casa (pane, focaccia, ecc…): nel suo piccolo non ci faceva mancare niente; ma la vita è ancora ostile nei confronti della mia famiglia e ci riserva un grande lutto: la perdita di mio fratello Felice, annegato in mare a soli quattordici anni, il giorno di Pasqua; nonostante fossi molto piccola, ricordo minuziosamente tutto di quella giornata.

Da quel momento in poi mia madre si annullò completamente sia verso se stessa che verso noi figli: per lei non esisteva più nessuno, era solo dedita quotidianamente a raggiungere il cimitero, ad indossare velo e abiti neri, a non mangiare e dormire più, a trascurarsi al punto da sembrare una donna molto più anziana rispetto all’età che avesse.

Data la situazione a dir poco complicata, essendo la più piccola, la decisione che fu presa per me fu quella di farmi entrare in un collegio, credendo che fosse il meglio per me, ma non fu così… Non è stato facile per me vivere dall’età di tre anni in un contesto abissalmente differente dal mio mondo familiare con regole rigide, severe e disciplinate da dover rispettare: essere svegliata con un campanello e non con un bacio o con una carezza, avere una divisa che ti contraddistingueva, dormire con altre ragazze e con una suora in una stanza, cambiare completamente le mie abitudini nello svegliarmi presto, andare in Chiesa, fare colazione e poi a scuola, accompagnata da una delle suore… Finestre sempre chiuse che non mi permettevano neanche di vedere mai la strada, peggio di una prigione,  per intenderci, e mai dimenticherò le botte ricevute… Solo una volta alla settimana si ritornava a casa, il sabato, per poi rientrare la domenica sera… È proprio in quella prigione che ho ricevuto il sacramento della Comunione e della Cresima.

Al refettorio ognuno aveva il proprio posto e sulla sedia scritto il proprio nome, per cui non c’era neanche la possibilità di poter cambiare posizione… per non parlare delle pietanze: costantemente si mangiava verdura che a me non piaceva e, per deglutirla, bevevo costantemente acqua; insomma, non vedevo l’ora che arrivasse il sabato per poter andare a casa, anche se a volte mia madre non veniva a prendermi e rimanevo sola in quelle quattro mura.

Arrivata ai miei dodici anni, l’istituto chiuse per problemi economici ed io finalmente ritornavo dalla mia famiglia! Ricordo vivamente che in casa non c’erano camerette e si dormiva tutti in una stanza dove c’erano tanti letti con un tavolo ed un armadio… Intanto mio fratello maggiore, che ha sempre sostituito la figura paterna, facendoci da padre, aveva avviato un’attività calzaturiera per dare a noi fratelli la possibilità di lavorare con lui e aiutare mia madre che non ce la faceva con i suoi risparmi, motivo per cui dovetti lasciare gli studi e dedicarmi al lavoro.

Dopo due anni dalla mia uscita dal collegio, viene a mancare mia nonna paterna che per noi era un pilastro. Il giorno del funerale si presentò una vicina di casa, vedova e con tre figli residenti a Milano, che chiese a mia madre la possibilità di avere qualcuno di noi a farle compagnia ma senza nessun interesse. Mia madre subito acconsentì decidendo di mandare me perché consapevole di non essere stata in grado di potermi seguire.  Inizialmente fui contenta perché cominciai ad avere una mia stanza, le mie cose e con lei sono stata lunghi anni ma il suo carattere autoritario logorò il nostro rapporto ed io dovevo resistere perché non avevo altra scelta. A lei però devo il mio percorso di fede, il mio inserimento sociale, il mio relativo star meglio, tutto questo tra pianti e lamenti. A soli diciassette anni conobbi il mio attuale marito, di nove anni più grande di me, ma questo mi faceva sentire più sicura e più protetta, sentivo la necessità di avere al mio fianco una persona adulta. Sono riuscita a sposarmi, uscendo da tutte queste esperienze, ritrovandomi un marito dal carattere, anch’egli, molto forte. Ho un figlio a cui dedico tutto il mio amore, quello che è mancato a me da piccola. Io non ho alcun ricordo della mia mamma, né una passeggiata insieme né un dialogo né un abbraccio nél’essere accompagnata a scuola né altro: non mi ha mai dimostrato il suo affetto, per cui voglio dare a mio figlio tutto l’affetto e l’amore che a me è sempre mancato e manca ancora perché certi traumi costituiscono una cicatrice indelebile.