«Per ogni adulto che non ricorda di essere stato bambino, ce n’è uno che non è mai cresciuto e pretende di saper crescere gli altri»
(Acca parla a de Saint Exupery)
Una mia amica ha una sorella psicologa, fra le migliori e coscienziose che io oggi conosca.
Questa psicologa, da ragazzina, faticava ad affrontare certi discorsi di persona e allora scriveva delle lettere a sua sorella. Le chiedeva di confrontarsi così, pregandola di non parlarne di persona, onde affrontare meglio l’imbarazzo.
Bene, il buongiorno si vede dal mattino. Quella ragazzina, che oggi è una persona seria e per bene, non si affidava a mezzi di fortuna social per buttare fuori i suoi dilemmi: a suo modo andava dritta al sodo, solo attraverso un altro mezzo, ma senza mai disperdere le forze o fare pubblicità occulta.
Quelle erano lettere di carattere privato e personale, fra lei e sua sorella. Punto.
Riflettiamo, perché stiamo vergognosamente superando la soglia dell’adultescenza: non si comunica attraverso i social nella speranza di far arrivare carezze o frecciate a qualcuno non meglio definito.
È una forma di comunicazione passiva, spesso passivo-aggressiva, che è deleteria, oltreché segno di un buon grado di pavidità e di un altro grado di diseducazione al riconoscimento ed al rispetto dell’altro, nonché di sé stessi. Lo vedo accadere ogni giorno e sempre più pericolosamente fra persone che tecnicamente hanno superato da un pezzo i 18 anni.
In altri termini, popolo Qadosh, esiste una soglia oltre la quale non si può andare e quella soglia, che ci piaccia o no, in queste cose è dettata dalla nostra età.
Io ho detto che i miei figli a 13 e 16 anni fanno parte degli adolescemi, ma cosa posso pretendere di diverso se è la generazione che va dalla metà degli anni ‘60 ad oggi ad essere adultescema?