Il nuovo anno scuoterà notevolmente il sistema macroeconomico: il tramonto del Quantitative Easing, con la fine del mandato di Draghi, ci lascia pieni di interrogativi su come poter coprire il debito pubblico in futuro

Le radici della crisi dei debiti sovrani che nel 2010-2011 si è abbattuta sullʼEurozona affondano in quella dei mutui subprime del 2008-2009, innescatasi negli USA e poi irradiatasi al resto del mondo. La crisi del debito pubblico dellʼarea Euro ha avuto anche un marcato carattere auto-realizzante: le aspettative negative dei mercati hanno giocato, infatti, un ruolo di prim’ordine nella sua diffusione.

Elemento cruciale di questa crisi è stato la difformità con cui essa ha colpito lʼEuropa. Alcuni Paesi, come la Germania, hanno mostrato una migliore resistenza grazie al ridotto livello di debito e allʼattività economica più solida. Altri, come i cosiddetti PIIGS (ovvero Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), si sono caratterizzati, invece, per una maggiore vulnerabilità.

Alla luce di questi eventi è emersa la necessità di dotare lʼEurozona di dispositivi tali non solo da contrastare le difficoltà contingenti, ma anche da prevenire, o quantomeno attutire, eventuali shock futuri.

Nel celebre discorso del 26 luglio 2012, Mario Draghi ha dichiarato: “Nei limiti del nostro mandato, la BCE è pronta a fare qualsiasi cosa per salvare lʼEuro. E credetemi, sarà abbastanza”. Tra gli interventi contingenti più importanti va sicuramente menzionato il Quantitative Easing. Questʼultimo funziona così: la banca centrale stampa denaro innalzando lʼofferta di moneta, al fine di comprare obbligazioni dagli istituti finanziari. La maggiore offerta di moneta riduce i tassi di interesse, portando i consumatori a prendere a prestito più denaro, in modo tale da dare una spinta allʼeconomia attraverso maggiori investimenti e più alti livelli di consumo. Tutto ciò ovviamente dovrebbe condurre ad un incremento del PIL del Paese.

Tuttavia, lʼavvento della crisi del debito sovrano ha aperto anche un ampio dibattito sulla fattibilità di unʼemissione congiunta di obbligazioni di debito pubblico tra gli Stati membri dellʼEurozona: EuroBond o Stability Bond.

Lʼintroduzione degli Eurobond implicherebbe che gli Stati membri condividano i relativi flussi di ricavi e i costi di servizio del debito. I molteplici effetti prodotti dagli Stability Bond vanno, però, ben oltre il campo puramente tecnico e coinvolgono aspetti inerenti alla sovranità nazionale e al processo di integrazione economica e politica. Infatti, questo strumento permetterebbe una maggiore resilienza del sistema finanziario nei confronti di future crisi, grazie ad una minore volatilità e al minor rischio di crisi autorealizzanti; porterebbe benefici per il sistema bancario; significherebbe un minor costo di finanziamento per gli Stati membri che attualmente pagano alti rendimenti sul debito pubblico; favorirebbe una più agevole trasmissione della politica monetaria; garantirebbe migliore efficienza del mercato delle obbligazioni sovrane e un rafforzamento del ruolo dellʼEuro nel sistema finanziario globale.

Gli Eurobond devono essere costruiti in modo tale da contrastare il moral hazard e avere unʼelevata qualità creditizia, per far sì che tutti i Paesi ne traggano vantaggio. Il rating creditizio dipenderebbe in primo luogo dalla struttura delle garanzie sottostanti: proporzionali, proporzionali rafforzate da privilegi e da garanzie collaterali, in solido. Inoltre, alcune proposte di Eurobond potrebbero richiedere una modifica dei Trattati UE. Lʼipotesi al momento più probabile vede una parziale sostituzione degli Eurobond alle emissioni di titoli di Stato nazionali con una garanzia solidale e individuale (ogni Stato è responsabile per intero dei bond comuni). La qualità creditizia sarebbe media e risulterebbe necessaria una modifica dei Trattati dellʼUnione Europea, richiedendo un tempo di realizzazione medio/lungo.

La proposta degli Eurobond, interpretata come possibile superamento della caducità del Quantitative Easing, pone in essere un problema prima di tutto di tipo politico: vi è, da parte dei Governi degli Stati membri, lʼintenzione di introdurre uno strumento unitario? Vi è la volontà di ridimensionare gli interessi nazionali in unʼottica puramente comunitaria? Queste sono le domande politiche, ma in fondo squisitamente tecniche, a cui lʼUnione Europea dovrà cercare di dare una risposta.