
Emergenza: parola interessante e dinamica
L’emergenza fa emergere i problemi: un sistema sanitario carente, o l’irresponsabilità di massa. L’emergenza fa emergere la fragilità, diranno alcuni. No, secondo me no. Semmai l’emergenza la mette in una luce nuova. Fragili siamo sempre, a meno che non siamo di quelli che la combattono. L’emergenza ha il solo compito di rafforzare la cura come unico stile di vita e fonte di relazioni.
Nell’emergenza, inoltre, può emergere che siamo talmente innamorati delle persone da riuscire a fare delle rinunce; oppure completamente disconnessi, autocentrati e incapaci di empatia. Questa è un’altra bella parola: è la parola dell’equilibrio, quello di chi sa immedesimarsi nell’altro senza confondersi con lui, sente nella carne il suo dolore e rimane forte per aiutarlo nel migliore dei modi.
È l’equilibrio di chi sa cambiare un’abitudine, anche se costa, perché comprende che, quando ci sono di mezzo la vita delle persone più deboli e la salute pubblica, non si può fare altro che rispettare semplici norme, con serenità e paura. E si, la paura serve: chi la possiede in giusta dose ha capito, diversamente da chi si sente superiore al pericolo, l’assurdità di continuare a gozzovigliare per locali come se nulla fosse. Certo, il panico resta ingiustificabile, perché fa commettere altri errori: anche qui la virtù sta nel mezzo.
L’empatia è l’equilibrio anche di chi in un momento come questo non fa discussioni inutili e sa tacere, di chi sospende il giudizio e, semplicemente, sta nel momento. Per cui non ha empatia chi passa al setaccio anche le virgole di provvedimenti normativi, presi e scritti nell’urgenza e nell’incapacità di definire i confini netti di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Tra il male assoluto e il bene massimo c’è il bene possibile, qualcosa di troppo umano e concreto per chi sa solo riempire i social di polemiche, artificiosamente costruite con il fior fiore della propria scienza.
Allo stesso modo non ha empatia chi si arrovella i neuroni alla ricerca dei “significati nascosti” di questa epidemia. Non c’è nessun significato nel male: un terremoto, uno tsunami, un’epidemia non dovrebbero autorizzarci a mettere in piazza tutto il nostro zelo pastorale, tutta la nostra bravura spirituale, tutta la nostra competenza linguistica, tutto il nostro bisogno di pie consolazioni. Ci sono cose alle quali non c’è risposta: imparare a convivere con l’assenza di spiegazioni, con il vuoto, con il mistero è qualcosa in cui siamo ancora carenti. Perché ci manca l’empatia.
Se l’avessimo, infatti, penseremmo immediatamente che chi in questa epidemia ha perso un genitore, un fratello, una sorella, un parente, un amico, ha diritto a non sentire sciocchezze, a non vedere che chi sta bene ha addirittura le energie per speculare sulla tragedia alla ricerca di risposte rassicuranti o di contenuti accattivanti per i propri post da 300 like.
Chi l’avrebbe mai detto che al tempo della mascherina sarebbero cadute così tante maschere. Chi l’avrebbe mai detto che un invisibile, fastidioso e nocivo virus avrebbe fatto emergere quanto siamo noi in primis nocivi e fastidiosi, ammalati di visibilità, incapaci si silenzio e di rispetto per la dignità di chi sta male.
Questa emergenza insegna una cosa sola: abbiamo ancora tanta umanità da imparare. E che in ogni piccolo gesto di attenzione abita il riscatto da questi comportamenti immaturi.
Una cosa, però, mi chiedo: se nell’emergenza emergono questi mostruosi squilibri, che vita stavamo costruendo quando tutto era “normale” e tranquillo?