E poi mi chiedevo: che devo andare a fare a scuola? E intanto vedi? Oggi so com’è caduta Troia”

(Una delle mie Bestie)

Ero al parco con le mie ragazze, una classe di sole “femmine” che ho visto crescere piano piano.

Quando è iniziato il nostro cammino, loro erano approdate a scuola dopo che ciascuna di loro la scuola l’aveva lasciata per i motivi più disparati: una aveva avuto due figli e non aveva potuto più studiare, l’altra si era fatta cacciare per la testa calda, l’altra non aveva nessuna motivazione e nessuno l’aveva spinta a continuare, un’altra ancora era figlia adottiva di colleghi che avevano urtato la testa contro la dura realtà dell’adozione e delle sue spesso impreviste e pesantissime conseguenze, ancora un’altra era cresciuta sola con la mamma che doveva lavorare quattordici ore al giorno e pensare anche all’altro figlio di pochi anni… insomma, chi più, chi meno, ognuna disastrata a modo suo.

All’inizio non sapevano nemmeno stare insieme e, fondamentalmente, non volevano: chi sbuffava, chi provocava, chi dormiva, chi sbraitava… gabbia di matte senza capo e senza coda che mi era stata affidata e con cui dovevo imparare a comunicare.

Sì, dovevo partire da zero perché nessuno nasce imparato e io, per quante idee potessi avere, mi ero accorta al secondo minuto che quello era un toro da prendere per le corna, senza se e senza ma. Di peggio c’era solo un fatto: era un toro imbizzarrito che senza telo rosso sarebbe finito in coma profondo e con il telo rosso canonico avrebbe simulato una perfetta arena e ci sarebbe scappato il morto.

Non si trattava solo di insegnare loro qualcosa che fosse un minimo di cultura, la qual cosa andava fatta, mi pagavano per quello sulla carta: lì si era palesata la storia antica che raccontavano i vari padre Pino Puglisi del mondo, quelli che si erano preoccupati di restituire la forza della gioventù ai quartieri Brancaccio di qualsiasi parte d’Italia e io non ero affatto certa di esserne capace.

Due sono le cose, in certi casi, ho imparato: o vuoi, fortissimamente vuoi e improvvisi, pregando di avere assistenza divina e fortuna insieme; oppure non vuoi e te ne vai, il che non è impedito da nessuno.

E niente, avevo deciso, sempre al secondo minuto, che non me ne sarei andata perché quando di minuti ne erano passati tre, quel primo giorno, avevo già iniziato la mia opera di profonda esperienza sul vero campo. Quale? Forse vi chiederete. Nessuna, vi risponderò: dalla pancia mi era salito un istinto irrefrenabile, dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa, dovevo salvarmi e per farlo era necessario salvarle.

Tre minuti e ci ero finita dentro come nelle sabbie mobili, fino al collo: a ci sò ji e ci sì tu, zero chiacchiere, zero merletti, zero ricami. Erano femmine, erano incazzate, annoiate, deluse, disincantate, incattivite, demotivate, disilluse e, peraltro, eterogenee, dai 15 ai 23 anni, e andavano a farsi friggere tutte le tattiche preconfezionate: ci voleva un minimo comune multiplo che le distraesse dalle loro egoistiche e cieche individualità e le incollasse alla mia voce, qualsiasi fosse la storia che potevo raccontare loro. Dunque era il modo che dovevo trovare: non dovevo cercare un cosa, mi serviva disperatamente un come.

Nemmeno bene la loro lingua conoscevo, perché il dialetto sì, sapevo anche scriverlo correttamente, aulica un corno! Ma lì il dialetto serviva sentirlo, incarnarlo, molto oltre il capirlo e concepirlo. Ero disarmata, non potevo in alcun modo commettere l’imprudenza di lasciare lo capissero (sveglie com’erano) e dunque avevo solo una possibilità: spogliarmi e lasciare si spogliassero. Niente di più pericoloso in un ambiente del genere: sarebbero stati giorni a suon di liti, azzuffate, minacce. Scene molto vicine all’idea di splatter, lette nei migliori libri di narrativa e analizzate nei migliori manuali di pedagogia. Era che dovevo sbattere il muso contro la vita vera, che nessun libro mai saprà insegnare: vi giuro che la vita vera ha un sapore del tutto diverso e un’ironia tagliente con lame solo ed esclusivamente a doppio taglio.

Capii che ce l’avevo fatta davanti ad un’esclamazione urlata in mezzo ad un circo che nemmeno sto a descrivervi: “Pssorè, tu sì can!” (Professoressa, tu sei cane).

Istanti lunghi secoli: “Eh? Cane? Sono un cane?”. Risero nel modo più sguaiato io possa ricordare: “Pssorè! Can! Non nu can. Can! Sì can”. (Professoressa! Cane! Non un cane. Cane! Sei cane!”).

Santo cielo benedetto, cosa diavolo mi stavano dicendo?

Imparai nel giro dei successivi secondi questo detto popolare: dire a qualcuno che è cane, nella più antica tradizione di Bari Vecchia, significa dirgli “Sei forte, sei un grande”.

Dio buono e misericordioso le avrei abbracciate una ad una fino a passare dall’altra parte per ringraziarle di avermi fatta sentire talmente idiota e fiera nello stesso momento: un’orgogliosa cretina! Anche questo stavo imparando. Sentirsi così era bellissimo. E non avrebbe mai più smesso di esserlo.

Infatti, sempre l’altro giorno, mentre eravamo tutte insieme al parco a fare scuola in mezzo agli alberi, mi misi un momento in osservazione di tutte, me inclusa: stentavo io stessa a prendermi sul serio. Stavamo veramente buttando giù il copione per una possibile rappresentazione teatrale? Mi spiego: loro che sono quelle di cui sopra, io che sono la loro insegnante di ben altro e il teatro lo guardo, di certo non lo faccio, e la tutor d’aula che è una fantastica tutor d’aula e sicuramente non una consumata direttrice artistica. Toccava, dunque, prenderne atto: non solo lo stavamo facendo, stavamo ridendo tutte insieme ed a fine giornata avremmo portato a casa la bozza del tutto completa, in vista di quella che era l’intenzione fortissima di fondo: andare in scena.

Vedete? A volte si vince: non la guerra, quella è faccenda grossa. Ma, mi chiedo, come si può vincere una guerra? E mi rispondo che esiste un solo modo: combattendo tante piccole battaglie.

E poi mi chiedevo: che devo andare a fare a scuola? E intanto vedi? Oggi so com’è caduta Troia”.

Era una voce dal sedile posteriore della mia auto, il giorno del parco, mentre accompagnavo tre di loro in stazione per il treno che le avrebbe portate a casa, nonostante il nostro copione non riguardasse l’epica Omerica e quella fosse stata l’oggetto non solo dei loro ultimi mesi di lezione, ma anche della loro temutissima verifica, la prima affrontata con il divieto assoluto di mezzi compensativi, libri aperti, quaderni e cellulari.

Sono io il vostro quaderno ed il vostro cellulare, se serve”, avevo detto qualche giorno prima… testa sotto, quattro ore di fila, erano sfatte e disfatte, ma erano felici.  “Prof., ti rendi conto? Ho fatto tutto da sola! Tutto. E mi hai messo 9”.

Il nove era nove, matematico, poco da interpretare, esattamente come matematica è la lingua che hanno usato per parlarmi dal sedile posteriore della mia auto e dopo quella verifica: perfetto italiano. Quello che conoscono dal primo giorno, non gliel’ho insegnato io. Il dialetto? No, non pensate sia stato cancellato. Quello è un patrimonio che loro possiedono e quello, dunque, lo portiamo sul palcoscenico a teatro.


FontePhoto by Jaime Lopes on Unsplash
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.