«La città è piena di fontane,
ma non svanisce mai la sete, sarà la distrazione,
sarà, sarà, sarà che ho sempre il Sahara in bocca. (…)
Se in mezzo alle strade o nella confusione
piovesse il Tuo nome io
una lettera per volta vorrei bere. (…)
Ma senza Te, chi sono io?
Un mucchio di spese impilate,
un libro in francese che poi
non so neanche, neanche bene io»
(Elisa, Se piovesse il tuo nome)
Occhi chiusi, testa reclinata. L’espressione tesa di chi supplica, divorato da un desiderio. Un sospiro, lento.
Una goccia cade. Precipita sulla palpebra, facendola vibrare leggermente, ritrarsi in gesto di difesa. Si apre un sorriso, quello di chi si sente ascoltato, quello sincero di chi si sente esaudito.
E poi un’altra goccia: con un tonfo leggero va a precipitarsi sulla spalla, lasciando il segno umido e delicato del proprio passaggio. Un’altra goccia, e un’altra ancora.
È un miracolo che nasce dal silenzio, che attimo dopo attimo, va a frantumarsi come cristallo, in un ininterrotto ticchettio di vita che precipita dal cielo. Un passo. E un altro. Le mani aperte, il collo in tensione. Il volto che guarda in faccia il cielo, libero.
Non è che uno scatto: l’anima danza, follemente, muovendosi in modo confusionario, curioso, spostandosi da una parte all’altra sulla melodia di questo pentagramma uggioso. Corre repentinamente, come affannandosi, con le mani a conca, a raccogliere la grazia che cade, tentando di non disperderne neppure una strilla preziosa, finché, vinta, si arrende, facendo scendere le braccia lungo i fianchi e, palmi aperti, si lascia infradiciare di benedizione.
Apre la bocca, come per replicare al cielo, schiude le labbra, ma è acqua che disseta, ristora, vivifica.
Sembra tutto perfetto, poetico, un magico quadro da contemplare. Finché la pioggia non si fa più forte, invadente e il ticchettio leggero di prima, ora è uno scroscio rumoroso: penetra nei vestiti, batte forte sugli occhi, rende le scarpe delle barche stracolme d’acqua, i calzini spugne, il sudore della danza si confonde con l’umido, in un qualcosa di scomodo, fastidioso. Le mani si stropicciano sugli occhi, come per liberarli dall’acqua, ma è un gesto sbagliato, brucia.
È troppo: un diluvio, che diventa insopportabile. Quell’attesa benedizione adesso non è più sostenibile: l’anima fugge, cercando disperatamente di raccogliersi, asciugarsi, dimenticare.
È l’imprevedibile sussurro di una canzone ad afferrare la mia mano e a tracciare, sulle righe vergini di un foglio bianco, la vita che nasce dalla mia penna. È il canto di una voce vera, che feconda l’orecchio e genera la preghiera.
È la meravigliosa voce di Elisa che viene a riportarmi a quella sete inestinguibile che ogni uomo, con i caratteri tutti speciali della propria esistenza, porta dentro di sé.
Chi sono io? Chi sei tu? Amico lettore, siamo due persone che hanno bisogno di bere acqua viva. Abbiamo bisogno di quel nome, che scenda, precipiti come pioggia e che, lettera per lettera vorremmo bere. Gustarne la freschezza, il ristoro. Abbiamo bisogno di quel volto, che ci piova nel cuore per non disperare fra le zolle secche della nostra anima. Un nome che, stillando dal cielo, mi visiti, entri, scenda nelle profondità a irrigarmi.
Quando la vita irrompe nelle nostre frettolose esistenze, come la pioggia insistente nei vestiti, non è mai semplice sostenere l’invadenza che ha, perché pretende di essere vissuta fino in fondo, reclama gli spazi che concediamo alle chiacchiere, smaschera le inautenticità dietro le quali ci nascondiamo per la paura di essere troppo coinvolti dalla fatica di vivere. Accade quello strappo, che desta la consapevolezza – che abbiamo da sempre – di essere manchevoli di qualcosa, sempre un passo indietro, sempre debitori di amore alla vita, senza il quale siamo incomprensibili a noi stessi, come quel “libro in francese” di cui parla la canzone che non sappiamo leggere. Senza riconoscere quella sete, senza ascoltarla è terribile vivere. Senza il coraggio di cercare e prendere quello che il nostro cuore ardentemente desidera, siamo come quel “mucchio di spese impilate” che ci racconterà sempre dei nostri loschi commerci di felicità a basso costo nei quali ci intratteniamo.
O si accetta la vita in tutta la sua portata, sostenendone tra sorrisi e lacrime il peso, benedicendola nonostante tutto, o si continuerà a vivacchiare, iniziare e interrompere, a rimandare a domani quella gioia promessa che potrebbe oggi esplodere nel cuore, a difendersi da quello che fa bene e nutre nel cammino di ogni giorno.
È il desiderio, esausto e speranzoso, della Samaritana a Sichar, riportato nel quarto capitolo del Vangelo di Giovanni: «Signore, dammi quest’acqua perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Mi piace associare, al volto biblico di questa donna, stremato dall’arsura di mezzogiorno, la voce di Elisa. Una donna che ha sete, persa nella confusione della sua vita, che implora anche solo una goccia di quell’acqua che mette pace nel cuore. È una donna che attende, divisa tra la paura dell’ennesima delusione e la speranza di qualcosa che restituisca lei a se stessa.
Fratello lettore, perdonami l’azzardo di rivolgermi a te con i toni della fraternità, ma in questa umana manchevolezza sento di essere molto vicino a te, come ad ogni uomo del mondo. È proprio questo qualcosa che manca, è proprio la nostra mano tesa a mendicare ciò che ci unisce in maniera universale. Solo a partire da questa povertà benedetta siamo radicalmente simili, profondamente uomini.
No, la paura non poteva fermare quella danza dell’anima. Rannicchiato al coperto – in un gesto di difesa da quella pioggia invadente – aveva il cuore oramai scoperto. Terribilmente fragile, come mai prima di allora libero, ma fradicio di vita. Non poteva tornare indietro. Non voleva. Con un’energica falcata si rigetta sotto la pioggia torrenziale, declina ancora il capo, accogliendo a viso aperto l’acqua dal cielo. Ma è una goccia fra tutte a rigare definitivamente quel volto: è una lacrima, acqua da dentro, che sgorga come preghiera. Si sentiva conosciuto, si sentiva toccato, guarito.
Si aprì un sorriso.