Davvero insolita questa lirica d’amore di Paolo Polvani, fuori dai canoni di filoni e generi letterari che celebrano il più declamato dei sentimenti umani e il più trito. Una sorta di “amore criminale” descritto nel suo cruento evolversi; narrato non come passione ma come insania, non quale dono ma furto, non fusione di anime e possesso di corpi ma prepotente fagocitare che assimila l’altro in me e a me.

Vieni – vieni è la voce suadente che promette il dolo, e il miele sarà ben presto fiele.

Sbrinerà, scioglierà i tuoi ghiacci ma affogherai nell’acqua.

Avrai l’autostima in orbita ma ti disintegrerai nel nulla.

Raddrizzerà il tuo Ego, ma poi sarai nessuno. E come un solletico sarà dolore la tua vanità.

Questo sembra dire il Poeta attraverso una serie di metafore, per poi varcare il campo semantico della caccia. E senti l’odore ferruginoso del sangue e del coltello mentre la coppia di termini trofeo e stendardo inneggiano al trionfo del predatore.

È la “patologia” che ruba la scena al “pathos”; è l’umana sete di felicità che ci si illude di poter placare amando; e non ti accorgi che t’ha fatto volare in alto e sei precipitato, ti ha promesso nutrimento e s’è nutrito di te, selvaggiamente ti ha divorato a piccoli morsi.

Geniale l’utilizzo dei termini titillare ed erezione in un contesto lessicale e in un campo semantico diverso da quello cui di norma appartengono, il che contribuisce a ricordare al lettore che l’Eros non manca in questi versi; si è solo consapevolmente trasformato in quello che in fondo è l’Amore: possesso, prepotenza, violenza, intrusione, invasione, strappo, e a volte persino eutanasia di un’esistenza. Un gioco “d’azzardo”, un gioco senza regole o, se volete, il più strano gioco di ruoli, in cui carnefice e vittima si confondono, si inseguono, si incontrano e si scontrano, si perdono e si ritrovano, e così all’infinito.

Solo tredici versi, in cui Polvani fa sfoggio della sua perizia compositiva, del suo personalissimo stile, del suo genio poetico.

Da notare, in quanto a forma, il costante ricorso all’inarcatura (più o meno forte) fino al dodicesimo verso: non c’è enjambement fra gli ultimi due versi, forse a voler placare il rincorrersi dei concetti, che si avverte in tutta la lirica, optando per una chiusa statica che renda bene l’irreversibilità della situazione. E, tra l’altro, sono gli unici versi a rimare, in una rimabaciata.


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Sono nata a Barletta il 19 gennaio 1961 da padre barese e madre barlettana ma vivo ad Andria dal 1972. Docente di scuola elementare, materna e di sostegno, dal 1987 al 2001 ho insegnato nella scuola materna statale. Conseguita nel 1993 la laurea in Pedagogia all’Università “La Sapienza” di Roma, ho insegnato nel Liceo Scientifico “A. Moro” di Margherita di Savoia e dal 2002 insegno lettere nel Liceo Scientifico “R. Nuzzi” di Andria. Per molti anni ho studiato e commentato i testi delle canzoni di Fabrizio De Andrè, alcune delle quali confluite nella mia tesi di laurea (inedita) e ho tenuto in merito alcune lezioni. Ho pubblicato su “Odysseo” il commento del brano “Don Raffaè”. Ho trascritto una importante cronaca barlettana e sono tutta immersa nello studio della storia della mia città natale. In particolare mi sto occupando di opere letterarie che parlano di Barletta o che sono state scritte da autori barlettani non molto noti. Attualmente sono nel Consiglio Direttivo delle sezioni barlettane della “Società di Storia Patria per la Puglia” e di “Italia Nostra”.