Uno show tra le nuvole. Se al Palazzo Municipale di Nemours ti assegnano un cognome comunemente francese sei, per ovvie ragioni, destinato a restare nell’anonimato. Ma se di cognome fai Petit e vivi sfiorando gli eccessi di una fugace esistenza, ‘mbè, allora qualche rotella fuori posto devi avercela di sicuro.
Un show mai visto prima. Già, perché là dove sorgeva un antico rifugio di pellegrini, curati con rudimentali reperti medici importati dalla Palestina e custoditi nel villaggio, nasce nel 1949 un uomo che ha sfidato le leggi della fisica gravitazionale.
Philippe Petit anarchico lo è sempre stato. Pittura, scultura, stampa e falegnameria gli avevano insegnato l’arte organizzativa e metodica delle creazioni. Concependo il tempo come un fastidiosissimo rompicapo, Philippe aveva imparato a mettere insieme le sue passioni come in un puzzle la cui immagine finale mirava all’infinito, punti tangenti che formano la linea retta della vita, una linea che Philippe tese ovunque.
Studente indisciplinato, sfruttò appieno la sua abilità nei giochi di prestigio per farsi beffe di insegnanti che soffocavano uno smisurato ego, quegli insegnanti a cui rubava soldi per assistere agli spettacoli della compagnia circense vicino casa. Un tendone errante di nomadi funamboli, l’occasione più ghiotta, l’opportunità di salire in cima e restarci. Philippe Petit immaginava così il suo show, niente palchi o microfoni, solo un teatro incastonato tra il suolo e l’etere, l’aria e lo spazio, la strada e tutto ciò che ‘’stava di sopra’’.
Prepara i suoi “colpi” con l’incoscienza di una mente fredda, denigrando ogni sorta di pubblicità e rifiutando manifesti che lo avrebbero catalogato tra avidi mendicanti in cerca di elemosina. La sua follia non aveva prezzo, l’audacia di sollevarsi da terra e percorrere un filo non era quantificabile. Mai nessuno c’era riuscito prima, nessun essere umano capace di intendere e volere avrebbe osato tanto. Lui, cresciuto con un cognome limitato dalla fisicità corporea, collocava l’aggettivo “petit” solo accanto alla parola paura, ignorando del tutto il significato di morte.
Anelava all’orizzonte, a poter letteralmente toccare il cielo con un dito. La traversata che nel 1971 unisce i campanili di Notre Dame o quella delle cascate del Niagara, qualche mese più tardi, sono solo il preludio ad un’impresa più grande, la volontà di essere immortali, la costanza di perseguire il sogno americano. Così, grazie all’incredibile lavoro di alcuni complici e ai mille sotterfugi per il trasporto dell’attrezzatura, il 7 agosto 1974, Philippe Petit tende il filo tra gli edifici del World Trade Center, a 417 metri dal suolo, cento in più rispetto alla sua Tour Eiffel. Percorre il suo sentiero ben otto volte, 60 metri di andata e ritorno, il timore di cedere e cadere nel ridicolo dimenticatoio non lo fa barcollare. Il segreto, in fondo, è non guardare giù, eppure da giù tutti guardano lui, un pubblico improvvisato a scrutare la sottile differenza che passa tra una banale mattinata estiva ad un’originale sfida nel vuoto, il nodo gordiano alla corda che legherà per sempre due Torri, un’unica anima da tramandare alla storia.
È vero sarebbero crollate per colpa di un vile attacco terroristico, ma non quel giorno, Philippe si fidava di loro e loro non potevano tradirlo. Ressero quelle funi per consegnarci la maestosità di un coraggio che aveva viaggiato per chilometri, una sciagurata opera di chi serba profondo rispetto per il proprio equilibrio interiore.
«Uomo dell’aria, tu colora col sangue le ore sontuose del tuo passaggio fra noi. I limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni» (P. Petit, Trattato di funambolismo, Ed. Ponte alle Grazie 1999).