Si è spento a 85 anni Philip Roth, un esteta prima ancora che uno scrittore. Di sé amava dire: “Non scrivo libri, ma frasi, una parola per volta“. Gigantesca umiltà la sua, radici letterarie incastonate nella stirpe dei cosiddetti “ebrei europei“ protagonisti dell’ondata migratoria che sbarcò negli Stati Uniti intorno al XIX secolo.
Insignito de Premio Pulitzer nel 1998, non riuscì mai a ghermire un Nobel che forse avrebbe meritato fin dagli esordi, da quando, cioè, nel 1959, presentò al grande pubblico “Addio Columbus“ e, dieci anni più tardi, “Il lamento di Portnoy“, ritratto dal registro tragicomico e scabroso. Opera che, attraverso la figura di Alexander Portnoy (icona al pari di un altro totem come David Kepesh), si abbarbica nel gotha della letteratura mondiale con una vis ed una gravitas che sfida il pudore buonista dell’epoca.
“American Pastoral“ del 1997 segna l’inizio di una fase più profonda e analitica della società americana, la critica identitaria di valori quali sesso, religione e morale, trattati con crudo realismo e caustica ironia.
Philip Roth ha pubblicato oltre 30 libri, tradotti in molte lingue, testi come “Ho sposato un comunista“ e “La macchia umana“, profili dissacranti, ambasciatori di messaggi ecumenici, dispaccio di un mondo ebraico-americano al quale sentiamo, purtroppo o per fortuna, di appartenere.