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A proposito dei luoghi comuni su smartworking e dintorni

Una domanda attanaglia un po’ tutti: possono forse la scuola e l’università, così come le aziende e gli uffici, continuare ad avere lo spazio dilatato e intangibile di una piattaforma, il ritmo dei click sulla tastiera, le sonorità metalliche dei microfoni e le immagini riprodotte dalla videocamera?  No, certo che no. “Occorre tornare alla realtà”, si dice.

No, un attimo: si vorrebbe forse dire che, pur nel comprensibile disagio e nella percezione di una certa stranezza, il lavoro, paziente e faticosissimo, pianificato e curato, condotto via onda o cavo, non è stato “reale”? Certo, questo discorso ha indubitabili vantaggi: qualcosa (o più di qualcosa) in videolezione è andata storta? Ma è ovvio, è tutta colpa di questa didattica a distanza. Ho discusso con un collega? Oh, se si avesse la possibilità di guardarsi negli occhi, queste cose non accadrebbero. Sono particolarmente indisponibile al dialogo? Certo, non vedi come sono stressato dallo smartworking?

Questi insidiosi luoghi comuni raccontano che per molti il virtuale è ancora una tana in cui rifugiarsi dalla realtà, questa realtà così rimpianta alla quale si starebbe, finalmente e lentamente, tornando. Raccontano che, ancora una volta, stiamo ragionando per aut-aut: o si è nel mondo reale, o si è nel mondo virtuale; l’uno è vero, l’altro è falso; l’uno è affidabile, l’altro non lo è. Quel mondo reale nel quale, forse, il medesimo qualcosa (o più di qualcosa) delle medesime lezioni sarebbe comunque andato storto perché, a prescindere dalla contingenza, dovremmo rivedere la nostra didattica e la nostra preparazione. Quel mondo reale in cui con il collega non avrei discusso semplicemente perché non so discutere, non so gestire i conflitti, la rabbia, la frustrazione, l’invidia. Le stesse alle quali do campo libero mentre sono dietro lo schermo: lì posso riposarmi dalla fatica di dover fingere nella realtà, dal peso della maschera che devo indossare affinché tutto scorra liscio. Quel mondo reale, infine, nel quale, pur senza alcun nervosismo da smartworking, comunque non so dialogare, né chiedere scusa, e pretendo solo di stare al centro.

E allora che cosa è veramente finto e inaffidabile? Non sarebbe più corretto dire che il virtuale è ormai parte del reale, che ha il potere di rivelarci agli altri più di quanto immaginiamo, che abbisogna di tutta la nostra dedizione? Non sto negando, ovviamente, il disagio di trascorrere le giornate al pc, né sminuendo la bellezza del desiderio di tornare all’incontro corpo a corpo, qualcosa che resta e resterà per sempre un miracolo impareggiabile. Sto criticando la lamentela continua, l’incapacità di prendersi la responsabilità di quello che non funziona, la mancanza di adattamento e di coraggio, la voglia matta di addossare sempre le colpe a qualcuno e a qualcosa, in questo caso la cattiva tecnologia e il cattivo progresso informatico. Chissà se ci sono così antipatici perché, contrariamente alle aspettative di avere a disposizione un comodo spazio in cui poter essere chi non si è, un valido riempitivo delle falle affettive, un palcoscenico sul quale recitare i ruoli più svariati, è una fetta nuova di realtà che richiede un supplemento di virtù. Del resto virtuale deriva proprio da qui.

La virtù dell’impegno costante a prescindere dai luoghi; della cura degli altri, dei loro corpi e delle loro emozioni a prescindere dalle distanze; del coraggio di considerare il privato non troppo separato dal pubblico, le parole digitate sulla tastiera o sbadatamente dette a microfono aperto (tanto sto a casa mia, chi mi sente? chi mi vede?) assolutamente reali e rivelatrici di ciò che siamo, non prodotto di stress, i danni arrecati agli altri via onda e via cavo frutto di mancanze ben più serie di una temporanea situazione di isolamento.

Perché nel virtuale siamo quelli del reale, e viceversa. E “chi è fedele nel poco, è fedele nel molto” (Lc 16.10), ovunque.

Controsenso: usi e abusi delle parole quotidiane

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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)