«Incominciava ad addormentarsi, io lo presi tra le braccia e mi rimisi in cammino. Ero commosso. Mi sembrava di portare un fragile tesoro. Mi sembrava pure che non ci fosse niente di più fragile sulla Terra. […]
E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi dissi ancora: «Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…”».
(A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe)
È notte nel deserto del Sahara.
Un uomo, aviatore di professione, cammina senza sosta, illuminato dalla flebile luce della luna. In braccio porta un bambino addormentato dai capelli color dell’oro.
Un silenzio sovrumano avvolge le due figure, sebbene le suole degli stivali dell’uomo che calpestano la sabbia generino dei tonfi sordi che scandiscono il cammino.
Tutto attorno, le diafane stelle del cielo africano, la brezza leggera che fa danzare le ciocche dei capelli, la sabbia perlacea, tutto è silenzioso.
Eppure quel tenero volto, quello di un bambino addormentato con la bocca socchiusa parla, senza pronunziare alcuna parola.
Quel fanciullo, il piccolo principe, fra tante cose, gli aveva raccontato durante l’estenuante giornata sotto al cocente sole d’Africa, con gli occhi che ancora si tradivano versando qualche lacrima di nostalgia, quello che la sua più grande amica, la volpe, gli aveva detto. Ancora ricordava il segreto che gli aveva affidato: «Non si vede bene che col cuore».
Ed, infatti, più fissava il volto di quell’ometto che portava fra la sue braccia e più riusciva a immergersi, delicatamente, nei meandri di quell’anima pura, scorgendo il luminoso bagliore di quella lingua di fuoco che gli ardeva dentro, il centro della sua stessa esistenza: la fedeltà a quella rosa, la sua, che amava sopra ogni cosa nell’universo.
Un giorno lei spuntò sull’asteroide dove lui abitava, gloriosa, splendida e lui non poté che amarla sin dal primo istante. La curava, la proteggeva, le riversava smisuratamente tutto il suo amore, eppure lei, fiore presuntuoso, non riusciva a contraccambiare con i suoi sentimenti.
Anche lei lo amava, ma non sapeva farlo nel modo giusto: bisognosa d’affetto ma piena di sé, si nascondeva dietro la sua vanità, la sua apparente superficialità, gli rivolgeva parole senza amore. Il piccolo principe non riuscì più a sopportare emotivamente quella situazione.
Fuggì, abbandonandola, provando a cancellare dal suo cuore il ricordo di lei, ad estirpare le radici di quell’amore nel profondo dell’anima, ma invano. Peregrinò in cerca di qualcuno da amare ma era ancora profondamente legato a lei.
Aveva sbagliato ad andarsene, era stato debole. Ma capì il suo errore solo quando la volpe lo illuminò su che cosa volesse dire addomesticare ed essere addomesticato da qualcuno.
Quando si addomestica qualcuno, viene a crearsi un legame, forte, intenso, che rende unica la persona che si ha di fronte. I suoi passi, insegna la volpe, sono diversi dai passi di chiunque altro al mondo, come una musica. I suoi occhi, i suoi capelli, ogni cosa è unica, tanto da rendere la stessa realtà intorno di una sfumatura diversa.
Quello che si ha attorno – un luogo, un momento, una circostanza, una parola – è un rimando a quel momento in cui il proprio cuore ha battuto veramente, spinto dalla forza di un sentimento, di bene, di affetto, di fraternità, di amore. Estranei che ad un certo punto, si uniscono in una dimensione che è solo loro e di nessun altro.
È un moto, questo, che porta dentro se stessi, facendo uscire e rendendo pienamente sé.
Ecco. Ecco cos’è la fedeltà, che De Saint-Exupéry ha meravigliosamente incarnato nel fragile corpicino del piccolo principe. È un legame profondo che porta a riscoprirsi nell’altro, a rinascere, a rimanere in chi si ha di fronte.
Si potrebbe definire come il grado più alto dell’amore, perché quando l’amore è fedele non muore, ma cresce, si commuove, sostiene, sopporta, resiste, spera. L’unica morte che conosce è quella a se stessi, perché chi ama fedelmente va oltre i propri limiti, oltre le proprie aspettative. Ama senza attendere, senza pretendere, rispettando i tempi, accettando i modi.
Di fronte ad un roseto il piccolo principe disse: «Voi siete belle, ma siete vuote. Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi […]. Perché è la mia rosa».
L’errore che aveva commesso era quello di pretendere una rosa che corrispondesse ai suoi desideri, fatta a sua immagine e somiglianza, non amandola per quella che era e non cercando in lei tutto quello che è invisibile agli occhi.
«Si diventa responsabili di quello che si è addomesticato». Essere fedeli a qualcuno significa esserne responsabili, essere attenti, saper leggere tra le righe, aprirsi, spalancarsi.
Essere fedeli vuol dire fidarsi, attendere, amare la vita dell’altro, offrirgli il meglio.
Essere fedeli significa essere liberi, sapendo di potersi perdere in un cielo che ti accoglie e non ti lascia mai solo.
Essere fedeli, infine, non è altro che dare la vita per chi si ama: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15.13): morire, per rinascere nel bene dell’altro.
Il piccolo principe si sarebbe svegliato presto. Un pensiero lo turbava, ma ormai era tutto pronto. Fra poche ore si sarebbe separato dall’aviatore: stava per raggiungere di nuovo la sua rosa sulla loro stella.
Col corpo non poteva farlo, ma con l’anima…
La volpe, l’aviatore, non li avrebbe lasciati, perché la fiamma della fedeltà ardeva anche per loro. Quando il serpente avrebbe fatto quel che doveva fare col suo veleno letale, allora avrebbe raggiunto tutti, senza separarsi da alcuno.
Perché essere fedeli significa anche saper ritornare da chi si è amato…