Il termine “accoglienza” evoca drammi e tragedie di immigrati che si consumano sotto le nostre telecamere fino a diventare macabra fiction. Qui la nostra comunicazione, attraverso strani meccanismi di semplificazione, porta a trattare l’immigrazione più come “problema” che come “fenomeno”, con conseguenti allarmismi generatrici di ansie e di polemiche grossolane, dimenticando che ad emigrare, di solito, sono i più intraprendenti, nel bene e nel male; qui individuare le mele marce è compito delle autorità competenti: attribuire però a dei “poveri Cristi” l’infamante nomea di esser tutti delinquenti è una faccenda che solo dei superficiali possono fare!
Purtroppo un certo populismo non riesce a scorgere in questo fenomeno quell’insopprimibile bisogno di vita migliore che genera enormi movimenti di esseri umani. Una cosa è certa: i beni e le ricchezze devono andare là dove stanno gli uomini, altrimenti gli uomini andranno sempre là dove sono custoditi avidamente i beni e le ricchezze.
Consapevole della vastità e della complessità del fenomeno, credo che questi eventi abbiano, forse inconsapevolmente, fatto emergere problemi sommersi molto più ampi della stessa immigrazione: ciò che opprime è la grande angoscia per l’inaridimento dei rapporti umani, la solitudine, l’abbandono, l’indifferenza e l’anonimato. Il deserto, scrive p. Cantalamessa, è il luogo dove, se gridi, nessuno ti ascolta, se giaci a terra sfinito, nessuno ti si fa accanto, se una bestia feroce ti assale, nessuno ti difende, se provi una grande gioia o una grande pena, non hai nessuno con cui condividerla. Non è questo ciò che succede a molti nelle nostre città? Il nostro agitarci e gridare non è anch’esso spesso un gridare nel deserto?
Ma il deserto ancora più pericoloso è quello che ognuno si porta dentro: più aumentano i mezzi di comunicazione, più diminuisce la vera comunicazione. Si accusa la televisione di aver spento il dialogo nella famiglia e a volte questo è vero. Bisogna però anche ammettere che la televisione viene spesso a riempire un vuoto preesistente. Raccogliere e accogliere queste ansie che “gridano nel deserto” delle nostre città diventa una sfida silenziosa di chi vive una “incarnazione” coinvolgente.
L’accoglienza, nel segno della benevolenza, offre una speranza radicale e un contributo decisivo per superare le barriere dell’egoismo, del sospetto, dell’inimicizia, dell’isolamento e dell’emarginazione, che avvelenano i rapporti umani, provocando esasperazione e rivolta.
Il nostro quotidiano ha un disperato bisogno di “amore, affetto e tenerezza”. Essere amato da qualcuno significa essere in vario modo ospitato nel suo cuore, mentre essere odiato equivale a venir scacciato e allontanato dal cuore altrui; essere poi indifferente per l’altro equivale a stare fuori del suo raggio affettivo, cioè trovarsi dinanzi a una porta chiusa. Perciò il “sentirsi amato” può costituire un invito a corrispondere; essere destinatario di vero affetto tocca direttamente il cuore di colui che, accorgendosene, viene reso felice, perché è oggetto di un vincolo rassicurante e fortificante.
La motivazione di questo comportamento è la compassione: la “sofferenza-con” … la passione di chi non può fare a meno dell’altro, lo cerca, lo accoglie così com’è, senza badare né al suo stato, né alle motivazioni che lo hanno portato o ridotto in quello stato. È la voce dei profeti che si alza nei tempi e nei luoghi della violenza silenziosa e occulta: è il grido della carne ferita che si eleva dal grande polverone delle ideologie e dei sistemi per soccorrere i poveri prodotti da varie civiltà.
Un monaco, Anselm Grün, sostiene che l’essere compassionevoli significa “permettere agli altri di accedere a quella zona in cui noi stessi siamo vulnerabili”. La compassione è una solidarietà viscerale con la condizione umana. È “divenire” il prossimo di qualcuno senza averlo previsto. È ricostruire, commossi fino alle viscere, quel rapporto relazionale che ha il sapore del Paradiso, perché Il paradiso è relazione: è “essere con…”.