Il dono del Manifesto

Se spesso nel corso del ‘900  si è ricorso allo strumento del ‘Manifesto’ per mettere sul tappeto nuovi problemi che non trovavano  adeguato spazio nel pensiero esistente col darne così inizio ad importanti  altri capitoli come prima Il Manifesto di filosofia scientifica del 1928 e poi il primo e secondo Manifesto di filosofia di Alain Badiou dal 1989, lo si è fatto quasi esclusivamente per ragioni interne al ‘travaglio dei concetti’ a dirla col matematico ed epistemologo Federigo Enriques (1871-1946); ma questo si è reso necessario per dar conto dei nuovi ‘eventi di verità’, nel senso di Badiou, emersi   e per far fronte all’irrompere di novità concettuali emergenti in altri campi come  in primis in quello scientifico, a volte solo subiti e a volte più ‘rettamente compresi’ per usare un’espressione del gesuita e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin. Ogni ‘Manifesto’ ha portato nel suo grembo   la conseguente ‘riforma del pensiero’, del resto presente in maniera quasi costante nella sua non lineare  storia,  che a volte assume forme non comuni di radicalità ma senza  andare oltre  i confini del sapere; e questo anche perché ancora non si era ben metabolizzato il fatto che ‘le idee non cadono dal cielo’ e camminano con le teste degli uomini come ha chiarito Karl Popper, e che quelle di certa modernità con i suoi unilateralismi e assolutismi erano  state in parte le cause delle tragedie del primo Novecento.

Venutasi a consolidarsi nel corso della seconda metà del secolo scorso questa coscienza, grazie a tutta una serie di studi orientati in tal senso, dello stretto rapporto tra la produzione  e la battaglia delle idee  e le azioni umane, in questi ultimissimi anni sotto la spinta di problemi planetari e bisognosi di improrogabili cambiamenti di rotta, pena esiti entropici, sta prendendo piede con rinnovato vigore lo strumento del ‘Manifesto’ in diversi settori coll’entrare direttamente nelle questioni cruciali che stanno investendo la nostra agorà ormai universale; si segnalano in tal senso  Per un Manifesto  del digitale nella scuola, a cura di Alberto Felice De Toni, Roberto Masiero e Silvano Tagliagambe (Milano-Udine, Mimesis 2022, collana  ‘Filosofia del digitale’) e  Manifesto. Per una riforma del pensiero, a cura di Piero Coda, Maria B. Curi, Massimo Donà e Giulio Maspero (Istituto  Univ. Sophia, Roma, Città Nuova 2021, collana ‘Dizionario Dinamico di Ontologia Trinitaria’ diretta da Piero Coda).  Ma lo sono nella sostanza anche, anche se il termine ‘manifesto’ non appare, ad esempio, il testo scritto insieme da Alberto Felice De Toni, Gilberto Marzano e Angelo Vianello, Antropocene e le sfide del XXI secolo. Per una società solidale e sostenibile (Milano, Meltemi 2022), come  In difesa dell’umano. Problemi e prospettive, a cura di Luciano Boi e Luigi Miraglia, voll. I-II (Accademia Vivarium Novum, 2022).

Vi danno, infatti, il loro contributo figure di diverso orientamento e formazione nel presentarli  come incubatori di idee che provengono dal più avanzato pensiero filosofico-scientifico e teologico e nello stesso tempo con l’esigenza di tramutare queste idee, arate da tempo e ben vagliate sul terreno concettuale col loro essere frutto della piena presa in carico di problemi reali, in un lievito per l’intera comunità umana. I  ‘Manifesti’, per parafrasare Simone Weil,  sono delle strategie teorico-operative messe in atto per costringerla  a ‘non mentire più sul reale’ che ci circonda, a coglierne ‘l’infinito mistero’ e ad ‘abitarne le contraddizioni’ per trarvi alimento, ad individuare le sempre più cogenti ragioni in esso implicito non più circoscrivibili in schemi imposti in modo aprioristico che poi si travestono in ideologie  a volte devastanti non solo per l’umano; e soprattutto mirano a proporre dei ‘rimedi razionali’, nel senso dato da Hélène Metzger (Hélène Metzger: la complessità come rimedio razionale, 20 agosto 2020),  per superare gli esiti distruttivi di certo modo di pensare e di agire,  e  per loro intrinseca natura mirano a coinvolgerla negli inevitabili processi di cambiamento per essere parte attiva nell’affrontare le inedite sfide che l’attendono.

Ed il Manifesto. Per una riforma  del pensiero, come scrive Piero Coda che già nel 2017 lo  aveva delineato nel saggio ‘La Trinità come pensiero. Un manifesto’  si segnala proprio in tal senso per il suo   “piccolo ma specifico contributo per abitare” il nostro tempo “segnato da una crisi epocale” e per “viverlo acciuffando la sfida che porta con sé”, quel vero e proprio “kairós che ci interpella” in profondità e che irradia i nostri orizzonti teorici ed esistenziali; e la prima sfida ritenuta,  sulla scia  di Edgar Morin, la più urgente  e “la più radicale” è quella tesa a “ri-formare il pensiero”, a ripensarlo dalle fondamenta  e a “riscoprire la forma originaria del pensare” dove conoscere e amare si nutrono a vicenda col rendere possibile in modo costitutivo la “libertà ad accogliere in sé l’altro” e di aprire le porte al “T/terzo ‘tra’”. La presa in carico di tale assunto  che per Massimo Donà può costituire una “vera e propria svolta”, tipica esigenza dei ‘Manifesti’, è il punto di partenza di tale “agapica avventura” tesa a gettare le basi di una nuova  epoca nella intelligenza trinitaria dell’essere” e dell’’enigma trinitario’ coll’arrivare ad una ‘ontologia trinitaria’ aperta in diverse direzioni e da costituire il perno di ogni forma di rinnovamento non solo in senso concettuale; tale questione, pur appartenendo all’essenza originaria del Cristianesimo, non è solo ritenuta oggetto dei teologi, ma può essere fatta propria come “bussola” da chiunque   “voglia esperire il mondo in quanto tale” nella sua complessità e voglia arricchire di nuove prospettive “le grandi domande della cultura”.

E sono più chiare  a questo punto le motivazioni del  ricorso iniziale, nelle prime pagine del Manifesto, ai punti forti del pensiero complesso col suo essere una più adeguata forma  di ermeneutica della verità e voce della polifonia e poliedricità del reale che reclama sempre più una visione cosmopolitica nel senso di Mauro Ceruti e nello stesso tempo agapica come emerge dalle intense pagine della Laudato si’; esso poi, coniugato con le istanze di certa fenomenologia e  del personalismo,   si è proficuamente innestato grazie a Piero Coda sulle tesi di Hemmerle che, esposte nel suo fondamentale testo del 1976  Tesi di ontologia trinitaria (Roma, Città Nuova Ed, 1996) saranno oggetto di una rivisitazione critica nel secondo volume del ‘Dizionario Dinamico di Ontologia Trinitaria’(DDOT). In tal modo, come diceva Jean Piaget, quando i saperi di diversa provenienza si incontrano col portare in dote i propri contenuti di verità, superano quello che Piero Coda chiama “il regime di separatezza tra teologia e filosofia ed il conflitto tra sapere umanistico e sapere scientifico”, si arricchiscono reciprocamente, si spogliano dei rispettivi assolutismi sempre in agguato dando così via a inediti percorsi con benefici per l’intera collettività. Il fatto di mettere al centro in tutta la sua rilevanza, non solo epistemica, del “perché oggi” di un approccio basato sull’ontologia trinitaria, “onto-logia aperta e integrale”,  segna per Donà “un nuovo inizio” per credenti e non credenti teso a “consentirci di coglierne il riverberarsi in ogni anfratto dell’essere, del dire, del conoscere e dell’amare,  e dunque il suo ineludibile travalicare ogni possibile terminus ad quem”.

Bastano queste poche ma ‘pregnanti’ indicazioni, che nella ‘loro chiara energia’, come diceva Paul Valéry in Eupalinos ou l’Architecte  nel 1921, per essere il concentrato di ‘anni di intime discussioni’, per porre le basi di una visione del mondo di natura fondamentalmente relazionale-trinitaria che nel porsi in ascolto delle ragioni del reale si fa “kairos, profezia del nuovo pensiero” per Piero Coda in grado di andare in modo costitutivo e comunitario oltre la “notte oscura del nichilismo” con l’essere più attenti a non cadere nella “logica impersonale dei totalitarismi, della tecnocrazia e del post-umanesimo”; se tale kairos viene accolto nella sua interezza è un rimedio razionale non solo  per superare da una parte quella che già Paolo VI chiamava ‘l’era desertica del pensiero’, ma anche quelle diverse ‘insidie epistemologiche’ presenti nelle riduttive e letterali  interpretazioni del reale come aveva indicato Giovanni Paolo II nei suoi scritti sulla scienza dopo la metabolizzazione del ‘caso Galileo’. In tal modo si evitano gli esiti  di quei percorsi, chiamati da Benedetto XVI ‘restringimenti ideologici’, che hanno subito nella modernità sia il pensiero filosofico-scientifico che teologico, vittime di visioni dualistiche e conflittuali con le inevitabili chiusure nei rispettivi ambiti.

Dalle pagine del Manifesto traspare molto chiaramente il bisogno di una svolta insieme epistemico-esistenziale che superi, pur facendone tesoro, la tradizionale idea di Trinità non più “in grado di generare quel luogo di esperienza e di esercizio relazionale e comunitaria del pensare” e di “impregnare, alla radici e in tutte le sue espressioni, l’antropologia” anche grazie alla presa in carico di  sollecitazioni provenienti da alcune esperienze mistiche, dal tragico percorso di vita e di pensiero di Pavel Florenskij e dal pensiero teologico sia occidentale che orientale che hanno messo in essere   dinamiche trinitarie o ‘logiche trinitarie’, vera e propria “posta in gioco”   come nel caso soprattutto di Klaus Hemmerle, “pensatore di frontiera tra la filosofia e la teologia” e ritenuto “all’altezza dell’epoca dell’essere”. Il ‘nuovo inizio’, basato sull’estensione ermeneutica del concetto di Trinità, da parte di Piero Coda assume  un ruolo ben preciso “nel contesto culturale della dopo-modernità” sino ad investire “il ‘soggetto’, la ‘cosa’ e il ‘luogo’ del pensare  l’essere in quanto agape” e come tale aperto all’’avvento del Terzo’, come viene chiarito nel testo, scritto con A. Clemenzia, Il Terzopersona. Per una teologia dello Spirito Santo (Bologna, EDB 2020).

Il Manifesto è un invito costante alla costruzione di una vera e propria razionalità agapica che,  per incidere, deve essere  frutto della collaborazione non solo delle comunità pensanti, ma di ogni comunità che si impegni ad invertire la rotta e a immettere costitutivamente nei suoi circuiti  “l’arte del pensiero dialogante, anzi ‘trinitizzante’”; vi gioca un ruolo non secondario quel luogo dell’intelletto in senso kantiano che è la complessità o meglio ‘l’intelligenza della complessità’,  divenuta oggi più che mai vero e proprio ‘a priori dello spirito’, come indicava Hélène Metzger per indicare la tendenza in atto in una determinata epoca nell’agire come un motore, a volte più evidente altre volte meno, nella ‘testa degli uomini’, oltre a servire da strumento disinfettante nei confronti di posizioni riduzionistiche (La complessità come disinfettante, 27 agosto 2020)  e ad inoltrarci con più maturità in quello che Mauro Ceruti chiama ‘secolo della fratellanza’ (Come abitare la complessità, 26 novembre 2020).

Del resto un concreto percorso  di ontologia trinitaria con le radicali poste in gioco  ha caratterizzato le esperienze di vita e di pensiero di singole figure femminili del Novecento come Simone Weil e Edith Stein, che fanno da sfondo alle tesi esposte e ritenute essere fonte di “nuova generatività” con cui confrontarsi; in tale processo di “riconfigurazione dell’ontologia”, sia “sotto il profilo epistemologico” che quello “teor-etico” e con la coscienza critica di essere un “ambizioso progetto” in fieri con la necessità di solcare diversi sentieri,  risulta ancora più pregnante l’invito da parte di  Piero Coda sulla scia di Hemmerle  a mettere in atto “un pensare dialogico vissuto con ritmo trinitario”. Tale evento di verità, se rettamente compreso, si tramuta in un necessario “cammino in comunità e una comunità di cammino” con diversi “punti cardinali” che l’orientano, come il ruolo primario  assegnato alla  “relazione (dialogica anzi tria-logica) che propizia lo scambio dei doni nell’intelligenza dell’E/essere come reciprocità reciprocante nel T/terzo, evento asimmetrico che sempre più penetra nell’abisso inesauribile della verità in un movimento a spirale che ne vede protagonisti tutti gli attori”.

In tal modo il Manifesto, che si avvale nelle altre parti di percorsi che ne spiegano la genesi, le finalità e la sua ‘archeologia’ con le Glosse che contribuiscono a chiarine i punti fondamentali, da una profonda riflessione sulle varie crisi di oggi,  considerate sulla scia di Raimon Pannikar portatrici comunque di una ‘rivelazione’, deborda nella generale condizione umana con l’indicare delle strade da intraprendere nel disseminare nuovi modi e metodi di pensare e di agire; e nel fornirci  strumenti indispensabili per pensare fuori della linea e per mettere ‘le premesse della storia del nuovo Mondo”, a dirla con Edgar Morin e Mauro Ceruti, tocca poi ad ogni singola comunità  mettere in pratica, una volta metabolizzata, tale ontologia trinitaria nei vari contesti culturali, politici, etici, economici ed ambientali. In tal modo si tracciano, insieme con inevitabili e probabili sconfitte, dei binari per una  razionalità agapica forte di questa nuova fonte  di enracinement, nel senso weiliano del termine, che va alimentata da parte di tutti, credenti e non credenti,  per far fronte alle diverse e comuni sfide a partire da quella ecologica che nel rivelarci gli ‘strazi’ della natura o della materia, come li chiamava Pierre Teilhard de Chardin, esige a sua volta un ‘nuovo e più radicale inizio’ da imperniare sul ritmo trinitario di ‘soggetto – cosa – luogo’ da costruire per evitare là dove sarà possibile fenomeni entropici. Ed il Manifesto. Per una riforma del pensiero  può essere anche visto, in virtù di questa razionalità agapica in senso trinitario, come risposta ai collassologi che vedono per il prossimo futuro diverse catastrofi per l’intero pianeta; ed insieme a voci del mondo laico presenti nel testo Un’altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso ( e non solo sopravvivere), (Roma, Treccani 2018) ed in altri, ci dà gli strumenti per prendere consapevolezza dei necessari cambiamenti di rotta, di non restare passivi di fronte agli strazi del pianeta e soprattutto di metterci in moto.


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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.