Come e perché tendere al “più vero”

In un periodo come quello attuale dominato dal dualismo tra quello definito da alcuni ‘empirismo dei dati’ o ‘schiavitù dei dati’ ed il soggettivismo più estremo che trovano nei Social ampia risonanza, forse è arrivato il momento per tutti di prendere coscienza di un fatto, già ampiamente discusso e assodato nella ormai secolare letteratura filosofico-scientifica, che il reale o quello che si presume sia tale non coincide mai con la sua apparenza; e se questa a volte risulta così immediata ed evidente è perché di essa se n’è fatta una costruzione che in termini logici è una vera e propria fallacia, cioè aver considerato la realtà interna di oggetti distinti e collocati in coordinate assolute di spazio e tempo al di là di ogni tipo di relazione, sino a sembrare antitetici e nello stesso tempo per questo veritieri di per sé.  E’ stato  negli anni ‘70 il cosiddetto pensiero debole o pensiero post-moderno ad avere  buon gioco nel denunciare con una certa notorietà presso un pubblico più vasto tale risultato, frutto invece di un realismo ingenuo e basato a dirla con Alfred N. Whitehead su una ‘concretezza mal posta’; è stato dunque facile ritenere e far passare per pure e semplici ‘narrazioni’ tutti i discorsi e i percorsi, compresi quelli filosofico-scientifici, prodotti e messi in atto dalla modernità  con tutto il suo precipitato di quelle che sono state chiamate ‘post-verità’ e che poi l’avvento delle diverse tecnologie digitali ha finito con legittimare e dare un certo credito epistemico.

Ma il pensiero filosofico-scientifico, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e da quella che è stata chiamata da più parti ‘seconda rivoluzione scientifica’, ha avuto a che fare con dei nuovi contenuti di verità prodotti nell’ambito delle diverse scienze dalle matematiche alla fisica e alla biologia col provocare la cosiddetta ‘crisi dei fondamenti’ che in certa e abbondante letteratura sino al ‘900 inoltrato è stata interpretata come ‘crisi della ragione tout court’; essa invece è stata una cruciale e salutare messa in discussione delle categorie elaborate da un certo pensiero classico basato sul realismo ingenuo e sulle sue propaggini positivistiche con le inevitabili derive scientiste e antiscientiste che poi hanno alimentato e alimentano tutt’ora i dibattiti sul senso della scienza e della tecnica.

Le scienze del primo Novecento poi (relatività, meccanica quantistica e teoremi limitativi di Gödel) hanno aperto ulteriori e ancora più profondi ‘venti di crisi’ che, pur necessitanti di uno sforzo teoretico non appiattito però  sulle categorie del passato,  hanno trovato relativamente poco spazio nella stessa letteratura filosofica, se non da parte di quelle figure che hanno inaugurato un suo nuovo filone, la filosofia della scienza; tali figure, a differenza di filosofi più rinomati,  hanno avuto fra l’altro il non secondario merito storico, poco riconosciuto, di aver fatto da contraltare a posizioni teoriche approdate in vario modo a punti di vista di natura irrazionalistica con i loro inevitabili risvolti di impronta totalitaria imperanti nel primo Novecento. Tale settore, grazie alla ricchezza delle proposte concettuali messe in campo, si sta rilevando  centrale e imprescindibile  nel dibattito odierno dove l’obiettivo come nel passato è  quello di capire il senso delle verità insieme al loro impatto etico-antropologico; ma tutto questo è stato possibile attraverso la  difficile comprensione della loro intrinseca dimensione storica  per i continui cambiamenti strutturali apportati. Questa operazione di chiarificazione, che del resto ha accompagnato ogni momento cruciale del pensiero scientifico,  è un compito certamente ingrato a cui sembra aver abdicato l’uomo contemporaneo forse stanco di cozzare con le rugosità del reale per le continue umiliazioni gnoseologiche subite a partire da Galileo.

Ma come ricordava Franco Selleri, un fisico teorico dell’Università di Bari che insieme a pochi altri denunciava negli anni ’70-’80 il fatto che stavano venendo meno i grandi dibattiti  filosofico-scientifici come quello avvenuto negli anni ’30 fra Einstein e Bohr, i veri  cambiamenti strutturali sono avvenuti e avvengono nell’ambito del pensiero umano in generale  quando  all’ordine del giorno si pone la questione della natura del reale e della sua struttura, delle modalità con cui  per coglierlo nel suo vero spessore si deve sistematicamente mettere da parte l’apparenza, diffidare del ‘dato bruto’ ed interrogarlo nelle sue pieghe più nascoste attraverso teorie più onnicomprensive; in tal modo esso reale perde la sua apparenza di res, si rivela dotato di una pluralità di livelli al suo interno e di una processualità intrinseca, come  già diceva nel 1929 Whitehead in Processo e realtà alla luce dei risultati scientifici del suo tempo.

Ma per coglierlo come tale, esso  pretende un pensiero ‘forte’ in grado di osare sempre di più e di pensarlo in maniera organica attraverso quel procedimento chiamato da un fine epistemologo come Gaston Bachelard (1884-1962), attento non a caso alle diverse implicazioni del lavoro di quelli che chiamava ‘scienziati al lavoro’ come Einstein e Dirac, ‘la filosofia del perché no?’, dove gli stessi problemi  da quelli esistenti agli emergenti esigono orizzonti teorici inediti e pluriarticolati; tale approccio richiede  di andare sempre oltre l’acquisito, di pensare attraverso i ‘non’ al già conosciuto, non per svuotare il reale dalle  verità  su di esso raggiunte, ma di  dare loro un nuovo senso perché ‘nella misura in cui un concetto cambia senso, acquista più senso’. In un momento in cui, come quello attuale, il senso delle verità sembra essere sparito dall’orizzonte cognitivo umano, esso invece ha bisogno di essere  ‘narrato’, interpretato con modalità sempre più veritative senza distruggere il passato, cioè senza negarne le verità acquisite a volte faticosamente conquistate, come nel caso di Galileo, e di integrarle in una visione più generale.  Per questo si rivela sempre più necessario un ‘pensiero forte’ in grado, forte delle ‘ragioni del reale’ conquistate, di guardare al futuro teso non al vero in assoluto ma sempre al ‘più vero’ con le sue diverse tappe ed il significato che vengono ad assumere per l’uomo.

La coscienza di tendere al ‘più vero’ fra l’altro ha il doppio vantaggio da una parte di non cadere in posizioni assolutiste che, una volta necessariamente venute meno, conducono a disastrose posizioni nichilistiche, di cui è stato ed è vittima l’uomo contemporaneo, e dall’altra di avere una visione del reale e del mondo ‘aperto’ ad altre ragioni tutte da costruire insieme all’interno di una permanente ‘diaconia della verità’ di cui del resto l’autentico pensiero umano, da quello scientifico-filosofico a quello artistico, è stato ed è un continuo testimone.

TRA LA RUGOSITÀ DEL REALE:

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Mario Castellana, già docente di Filosofia della scienza presso l’Università del Salento e di Introduzione generale alla filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese di Bari, è da anni impegnato nel valorizzare la dimensione culturale del pensiero scientifico attraverso l’analisi di alcune figure della filosofia della scienza francese ed italiana del ‘900. Oltre ad essere autore di diverse monografie e di diversi saggi su tali figure, ha allargato i suoi interessi ai rapporti fra scienza e fede, scienza ed etica, scienza e democrazia, al ruolo di alcune figure femminili nel pensiero contemporaneo come Simone Weil e Hélène Metzger. Collaboratore della storica rivista francese "Revue de synthèse", è attualmente direttore scientifico di "Idee", rivista di filosofia e scienze dell’uomo nonché direttore della Collana Internazionale "Pensée des sciences", Pensa Multimedia, Lecce; come nello spirito di "Odysseo" è un umile navigatore nelle acque sempre più insicure della conoscenza.