«Caccianli i ciel per non esser men belli, 
né lo profondo inferno li riceve, 
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli»

(Inferno, III, vv.40-42)

Caro lettore, adorata lettrice, lo confesso subito: riassumere nello spazio di un “caffè” i contenuti e i temi del terzo canto dell’Inferno non è volo per le mie penne. Davvero ti suggerisco di leggertelo con calma, facendoti magari aiutare da parafrasi e commenti che non ti sarà difficile reperire. Dal canto mio, mi limiterò al consueto balbettio…

«Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente»

(vv.1-3).

Ci siamo. Siamo all’ingresso dell’inferno, il luogo dove ha sede la “città che prova dolore”, un “dolore eterno”, il dolore dei dannati. La triplice ripetizione «per me si va» serve proprio a porre l’accento su quello che si chiama “climax ascendente”, una sorta di ascensore per enfatizzare sempre più il concetto che si vuole esprimere. In questo caso, il climax serve a enfatizzare l’angoscia: la città è “dolente” perché la sua sofferenza è eterna ed è eterna perché è lo spazio di chi si è perduto per sempre, dato che ha smarrito «il ben dell’intelletto» (v. 18).

“Intelletto” viene da intus legere: capacità di “leggere dentro” le cose e se stessi; chi annebbia tale facoltà, acceca se stesso e rischia di cadere nel vuoto. Dante ci sta già dicendo che è dannato chi si con-danna, scegliendo di non usare più il bene dell’intelletto, scegliendo di non discernere più il bene dal male. O addirittura: scegliendo di non scegliere.

Non a caso, il canto terzo, prim’ancora di essere il canto di «Caron dimonio con occhi di bragia» (v.109), è il canto degli ignavi, coloro che vissero «sanza ‘nfamia e sanza lodo» (v.36). E se Caronte, con i suoi occhi infuocati e con le sue vibranti parole, atterrisce le anime dei dannati, gli ignavi hanno una condizione che è la peggiore tra tutte:

«Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte»

(vv.46-48).

Coloro che non hanno mai scelto altri che se stessi, coloro che non hanno mai avuto una bandiera, un ideale, una comunità, una persona per cui vivere, sono degli «sciaurati, che mai non fur vivi» (v.64): semplicemente, e atrocemente, non hanno mai vissuto, perciò sono invidiosi di qualsiasi altra condizione, persino di quanti si assiepano sulla riva dell’Acheronte, in attesa che Caronte li traghetti nel luogo della loro pena eterna.

Con gli ignavi Dante è duro come con nessun altro: non li vogliono i cieli, scrive, «per non essere men belli», ma li schifa anche l’inferno, perché dalla lor presenza non potrebbe ottenere alcuna gloria; nemmeno Satana, per Dante, si può vantare di dare ospitalità a un verme, a chi non si è mai schierato.

È davvero un canto senza luce, il terzo dell’Inferno. È attraversato dall’inizio alla fine da «parole di colore oscuro» (v.10), in un «aere sanza stelle» (v.23), in una «aura sanza tempo tinta» (v.29), connotata dalla presenza degli ignavi che non hanno neppure «speranza di morte» (v.46), in una «buia campagna» (v.130).

Sgomento, a Dante, il forte, il coraggioso, il superbo, non resta che cadere «come l’uom cui sonno piglia» (v.136).

Sviene, padre Dante, sviene davanti allo spettacolo di quanto malvagio, vile e meschino sappia essere l’uomo. Sviene all’idea di quanti, ancora oggi, fanno «per viltà il gran rifiuto» (v.60).

Sviene. Ma poi riprenderà il suo viaggio. Perché neanche lo spettacolo dell’orrore più tetro è per lui alibi sufficiente per tirarsi indietro. E qui c’è da chiedersi: se lui può, perché non io, perché non tu? Qual è l’aquilone che inseguiamo tu ed io?

Bansky: «L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo».

LEGGI GLI ALTRI CAFFÈ CON DANTE


FonteDesigned by Eich
Articolo precedenteAut / Out. Lettere dall’autismo
Articolo successivoNovembre ricco di soddisfazioni per il PoliBa
La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...