«Omai convien che tu così ti spoltre», 
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma, 
in fama non si vien, né sotto coltre»

(Inferno, XXIV, vv.46-48)

Il canto ventiquattresimo e quello successivo sono occupati dalla presentazione della settima bolgia, in cui sono puniti i ladri. Dante, all’inizio incerto per il visibile turbamento con cui Virgilio aveva chiuso il canto precedente, è presto confortato dalle parole e, ancor più, dal comportamento del maestro, che lo aiuta fattivamente a raggiungere la sommità dell’argine, «ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo» (v.78). Vale a dire: fatti e non parole per rispondere a domande lecite.

La pena a cui sono sottoposti i ladri è quanto mai truculenta: sono immersi in un mare di serpenti di ogni forma, quanti il deserto di Libia nè l’Etiopia o l’Arabia possono contenere. Un serpente lega loro le mani dietro la schiena e li avvolge in tutto il corpo. Dante assiste al morso che uno dei dannati riceve al collo e che immediatamente lo carbonizza riducendolo in polvere. Subito, però, il medesimo dannato dalla polvere si ricompone, a mo’ dell’Araba Fenice, riprende la sua forma umana e rimane attonito come paralizzato o posseduto da un demonio.

Dante vorrebbe conoscere l’identità del malcapitato e questi gli risponde che, suo malgrado, non può opporsi al suo desiderio: si tratta di Vanni Fucci, detto “la bestia”, che si fa vanto di aver bestialmente vissuto e di aver trafugato gli arredi sacri del duomo di Pistoia, facendo ricader su altri la colpa. Come accaduto con Farinata degli Uberti o Capaneo (XIV), Vanni Fucci non solo non fa alcuna mostra di pentimento per le sue azioni, ma sembra disdegnare le pene stesse dell’inferno e chiude il canto con una violenta e rancorosa profezia di sventura ai danni di Dante: dopo quelle di Ciacco (canto VI), Farinata Degli Uberti (canto X) e Brunetto Latini (canto XV), è già la quarta che il poeta subisce e solo nel diciassettesimo canto del Paradiso, dal suo avo Cacciaguida degli Elisei, potrà ricevere la spiegazione definitiva del destino che l’attende.

Del resto, già prima che quelle di Vanni Fucci, le parole di Virgilio aveva voluto scuotere il suo animo:

«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.

E però leva sù: vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.

(Inferno, XXIV, vv.46-54)

Tradotto: Ora è necessario che tu ti spoltrisca (cioè: ti dia da fare, la smetta di poltrire) poiché sedendo su cuscini di piuma o indugiando sotto le coperte non si acquista fama; e chi consuma la sua esistenza senza fama, muore lasciando una traccia di sé passeggera come fumo nell’aria o schiuma sulle onde. Perciò, alzati: supera l’affanno con la forza d’animo che, se non si lascia abbattere dalla gravità del suo corpo, vince ogni sfida.

Ancora una volta, devo ammettere, non sono del tutto d’accordo con padre Dante. Sì, lo so bene, celebriamo i 700 anni della sua morte e, dunque, lui la sua partita l’ha vinta: ha acquistato fama, ha lasciato una tale traccia di sé che ancora oggi lo celebriamo e lo commemoriamo. Lo stesso potremmo dire di tutti i grandi del passato e come non citare il Dei Sepolcri di Foscolo che affida alla poesia il compito di vincere “di mille secoli il silenzio”?

Solo che, in questi casi, la mia simpatia va a chi vive senza passare alla storia e, di certo, non perché nella sua vita abbia poltrito. Penso ai tanti braccianti agricoli o minatori, morti anonimi e analfabeti, penso a chi giace sotto le acque del Mediterraneo, penso a chi muore di stenti o alle innumerevoli vittime delle innumerevoli guerre servite solo all’ambizione del potente di turno ed ad attaccare patacche sulle uniformi di gala dei vincitori. Penso ai morti di Covid: in particolare, a quelli i cui nomi mai leggeremo sui giornali.

No. Il senso della vita non può essere in un mero acquistar fama per “passare alla storia”. Perché la storia si dimentica sempre degli sconfitti: e, poco dopo, anche dei momentanei vincitori.

Servirebbe “un centro di gravità permanente”, canta Battiato.

Sì, ma verso dove?

Per esempio, in direzione dell’umiltà di madre Teresa: «Chi, nel cammino della vita ha acceso anche soltanto una fiaccola nell’ora buia di qualcuno, non è vissuto invano».

O di un a me non meglio noto contadino canadese, di nome Nelson Henderson: «Il vero significato della vita è quello di piantare alberi, alla cui ombra non prevedi di sederti».

E se proprio devo affidarmi alla voce di un poeta, questa volta scelgo la sensibilità dai toni dimessi di Antonia Pozzi:

«E tu non dire

ch’io perdo il senso e il tempo

della mia vita –

se cerco nella sabbia

il sole e il pianto

dei mondi –

se getto nelle cose la mia anima

più grande – e credo

ad immense magie…».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...