
Le diocesi potranno trasmettere alla autorità civili la documentazione sugli abusi commessi dagli ecclesiastici a danno di minori
Il giorno del suo 83esimo compleanno, papa Bergoglio ha lavorato, come ogni giorno, e per di più intorno ad una problematica che gli lacera particolarmente il cuore: i casi di pedofilia commessi dal clero. Con due documenti ha abolito il segreto pontificio nei casi di violenza sessuale e di abuso sui minori consumato da ecclesiastici; decide di cambiare la norma riguardante il delitto di pedopornografia facendo ricadere nei “delicta graviora” – i delitti più gravi – la detenzione e la diffusione di immagini pornografiche che coinvolgano minori fino all’età di 18 anni (finora fissata a 14 anni) e consente anche ad un laico di svolgere la funzione di avvocato e procuratore (nel rescritto del 2010 tale funzione era all’appannaggio esclusivamente di un sacerdote). Rimane, invece, il segreto d’ufficio per garantire “la sicurezza, l’integrità e la riservatezza” delle varie fasi del processo a “tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte”.
Già nel summit convocato in Vaticano dal Papa sulla pedofilia, nel febbraio 2019, si era parlato, da più parti, di segreto pontificio, come ostacolo al diritto ad una giusta informazione dovuta alla vittima e alla comunità. Dopo la storica decisione del 17 dicembre 2019, spiega l’arcivescovo di Malta Charles Scicluna, segretario aggiunto della Congregazione per la Dottrina della fede, cessano alcuni impedimenti: prima, infatti, “la vittima non aveva l’opportunità di conoscere la sentenza che faceva seguito alla sua denuncia, perché c’era il segreto pontificio. Anche altre comunicazioni venivano ostacolate, perché il segreto pontificio è un segreto di altissimo livello nel sistema di confidenzialità nel Diritto canonico. Adesso viene facilitata anche la possibilità di salvaguardare la comunità e di dire l’esito di una sentenza”. Con l’abolizione del segreto pontificio, precisa il vescovo, i documenti “non sono di dominio pubblico ma viene facilitata la possibilità di una collaborazione più concreta con lo Stato, nel senso che la diocesi, che ha una documentazione, ormai non è più legata al segreto pontificio, può decidere – come deve – di collaborare bene, trasmettendo copia della documentazione anche alle autorità civili”.
Questo nuovo documento pontificio, che ha nella “trasparenza” e nella “collaborazione” le sue parole d’ordine, rimane però fermo sul segreto confessionale sacramentale, messo in discussione recentemente da ordinamenti di paesi come India o Australia, che vorrebbero imporre ai preti confessori di denunciare alla pubblica autorità i casi di abusi confessati dai penitenti.
L’abolizione del segreto pontificio era già stata chiesta dal cardinale tedesco Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti di papa Bergoglio, che denunciava: “I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime imponendo loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare”.
Ora quella richiesta è stata finalmente esaudita e cambierà la vita a tante vittime che in questi anni si sono dovute confrontare con un frustrante e autentico muro di gomma da parte delle istituzioni ecclesiastiche a causa del segreto pontificio.
Ma abolire il segreto pontificio “non vuole dire che venga sdoganata la libera pubblicità da parte di chi ne è in possesso, il che, oltre ad essere immorale, ferirebbe il diritto alla buona fama delle persone”. A precisarlo è mons. Juan Ignacio Arrieta, segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, commentando il rescritto in questione del Papa, che “richiama al normale segreto o riservatezza d’ufficio quanti, in qualunque modo, sono chiamate a gestire ufficialmente tali situazioni”.
Questo documento non poteva non aprire un discorso più ampio sulla Chiesa. È vero che il maggior numero di abusi su minori si verifica nell’ambito delle famiglie, ma è vero anche che la comunità cristiana non può permettersi di cadere nelle stesse perversioni che minacciano altre istituzioni. E, se ciò accade, è legittimo – anzi necessario – chiedersi come mai ciò possa essere accaduto.
Da questo punto di vista, sostiene Giuseppe Savagnone, lo scandalo della pedofilia, in sé dolorosissimo, può diventare un’occasione per coinvolgere, al di là del problema specifico, tutti gli ambiti della vita ecclesiale, dando finalmente autorità anche alle donne, finora troppo spesso oggetto del potere degli uomini. Non si tratta di farle diventare preti (clericalizzarle), ma i laici e le laiche devono poter contare di più proprio in quanto laici e laiche!
Non è dunque il celibato dei preti, come spesso si sente ripetere, la causa del fenomeno. Il polarizzarsi dell’indignazione pubblica sulla Chiesa è perfettamente comprensibile, ma non per la quantità oggettiva dei casi di perversione dei suoi membri, bensì per la particolare responsabilità di questi ultimi.
Ciò che più minaccia le comunità, al loro interno e nella loro missione, continua Savagnone, non è la pedofilia dei presbiteri, che spesso è un effetto, ma la mediocrità in cui rischiano di essere impantanati con i loro problemi irrisolti di umanità e relazionalità. La difficoltà nel trovare e mantenere viva una creatività spirituale, può risultare devastante nella personalità del prete e degenerare in un autoritarismo aggressivo e competitivo (il clericalismo come delirio di potere), alla ricerca di una patologica autoaffermazione a discapito di quella comunitarietà di vita e di missione nella quale hanno fatto pubblica professione.