Per un’alba di speranza
Negli anni Novanta ho insegnato religione prima in un istituto professionale e poi in un liceo. Aspettavo con ansia l’ultimo giorno di lezione prima delle vacanze natalizie per augurare ai miei alunni: «Buona Pasqua!» …Ecco, se state pensando ad un errore di stampa, più o meno siete nella medesima condizione dei miei alunni di allora, i quali si spingevano persino a ipotizzare che avessi, come dire, “alzato un po’ troppo il gomito” ancor prima che arrivasse il tempo del cenone della vigilia.
In realtà, io approfittavo del momentaneo effetto straniante della mia battuta per catturare la loro attenzione e lasciarli così con una “pillola natalizia” che, speravo, li aiutasse a proseguire nella loro autonoma riflessione.
Partivo da qui per poter poi spiegare che “passione” viene dal latino passus, che è participio passato del verbo patio, un verboche vuol dire, sì, “sopportare, soffrire, patire”, ma anche “avvertire un determinato stato d’animo”. Ora, si sa, una percezione può essere negativa, come appunto nel caso della sofferenza, ma anche positiva, come nel caso della gioia, dell’entusiasmo, del gaudio interiore. In altri termini, patire, in latino, ma anche in italiano, prima che “provare sofferenza” significa “essere in condizione di percepire” e, dunque, in senso lato, persino “esistere”, perché solo chi vive può avvertire pulsioni, emozioni, sentimenti.
Che ha che fare tutto questo con il Natale? Pensiamoci un atto insieme. L’annuncio giovanneo proclama: “E il Verbo si è fatto carne…”. Carne, cioè capace di provare sensazioni con i cinque sensi, cioè di soffrire, di ammalarsi, di invecchiare, di morire. Carne, cioè natura gracile, soggetta al divenire, mortale.
Ecco, a me non pare eccessivo dire che la Pasqua di Cristo, in senso pieno e autentico, ha inizio a Natale, proprio con il mistero dell’Incarnazione. Direi di più: è l’Incarnazione il codice genetico da decifrare se si vuol provare a intelligere (leggere dentro) il mistero della Pasqua. Non è strano che un Dio, una volta fattosi carne, sia soggetto, un giorno, in un modo più o meno ingiusto e crudele, alla lacerazione della morte: perché è proprio questo che accade ad ogni uomo e ad ogni donna, ad ogni essere che nasce.
Ciò che è “strano” è che Dio si faccia uomo, che scelga di “morire” alla sua immortalità per nascere bimbo fragile, esposto alla gioia e al dolore, alla salute e alla malattia, ai colpi della vita e della morte. In una sola parola: alla Passione.
Certo, quando Leopardi scriveva “è funesto a chi nasce il dì natale” aveva senz’altro in mente altro e intendeva sottoscrivere il manifesto del suo pessimismo cosmico. Il fatto è che, sia pur inconsapevolmente, io credo stesso illuminando, a modo suo, il manifesto della speranza cristiana, il kerigma, il vangelo, il lieto annuncio.
Potremmo provarlo a tradurlo così: prima e al di qua di Cristo, ogni uomo che nasce è inesorabilmente votato alla morte; dopo Cristo e in Cristo, ogni nascita è vocazione alla vita; anzi: alla vita che non muore più. Perché la Passione è, sì, l’atto primo del triduo pasquale, ma – non dimentichiamolo mai – esso ha termine e compimento con l’alba di risurrezione.
E se tutto questo ha un senso, come lo ha per chi affonda le sue radici nel mistero della fede, spero non sembri strano se per gli auguri natalizi scelgo le parole di don Tonino Bello: la Pasqua/Natale «sconfigga il nostro peccato, frantumi le nostre paure e ci faccia vedere le tristezze, le malattie, i soprusi e perfino la morte, dal versante giusto: quello del “terzo giorno”». Solo così, «le sofferenze del mondo non saranno per noi i rantoli dell’agonia, ma i travagli del parto».