Sono italiana e oggi non so più cosa voglia dire. L’appartenza non scompare, ma subentra il disagio di far parte di uno Stato sul passaporto e di aver perso qualsivoglia legame ideologico con la parola che definisce la nostra origine

C’è un perimetro che delimita l’appartenenza di un cittadino alla sua terra. È un perimetro labile e circoscrive un’area più o meno estesa, più o meno riconosciuta. Ci sono tanti spazi che identificano la terra di appartenza, le Itache della navigazione quotidiana. E poi ci sono quelli che strappati alla loro terra, vivono in terre altrui, testimoni di false appartenenze e di spazi sconosciuti.

In uno scenario politico fervente, sulla scia dei risultati elettorali, rifletto sul senso civico e di appartenenza ad una comunità. Penso agli americani che saranno guidati dal più anziano presidente nella storia degli Stati Uniti, a quanti di essi sono andati alle urne per amore della propria terra, a quanti hanno idealizzato il sogno americano e hanno riposto le loro speranze in un imprenditore millantatore di sogni di gloria per la patria. Penso ai delusi democratici che vedevano nella Clinton il baluardo di una politica liberale, a tratti progressista. Penso agli americani – tutti – che hanno avuto il potere di stabilire un nuovo primato presidenziale, con una donna alla Casa Bianca, e vi hanno rinunciato.

Il mio pensare non è colorato, non ha bandiere, né inni.

Penso e invidio, sì invidio, coloro che si battono per un ideale, che hanno chiaro il perimetro di appartenza ad una terra e ad una comunità e che si adoperano, come possono, per prendersene cura. Poi penso, e non definisco chiaramente il mio stato d’animo al riguardo, a tutti quelli che non possono darsi appuntamento in nessuna agorà. Quelli che, per ragioni diverse, non hanno perimetri di riferimento, né luoghi di appartenenza, né comunità ospitanti. Prendo in prestito una bella parola, gli apolidi.

Ma gli apolidi a cui penso non sono affatto privi di cittadinanza.

Sono italiani, greci, spagnoli, senegalesi, russi, ucraini, americani, vietnamiti. Eppure non appartengono a nessuno di questi stati, nessuna città, nessuna Itaca. Sono persone che, come me, sono nate e cresciute in un perimetro che, per necessità e altre contingenze, si è esteso troppo e quasi non lo si riconosce più. Persone che appartengono a tutto e a niente, che seguono da lontano le vicessitudini delle lore terre, interrogandosi sul diritto di definirle “loro”.

La verità è che l’appartenza non scompare, ma subentra il disagio. Il disagio di far parte di uno Stato sul passaporto e di aver perso qualsivoglia legame ideologico con la parola che definisce la nostra origine. Sono italiana e oggi non so più cosa voglia dire – oltre ai consolidati stereotipi esteri di pasta, pizza, Berlusconi. Sono di Avellino, anzi terrona per una fetta di miei connazionali, e non so neanche quali mali fanno soffrire la mia città, di quali cure avrebbe bisogno, chi si adopera per il suo bene, chi ne vuole il suo male.

Tutto questo è fonte di disagio, lo posso assicurare. La colpa è mia, nostra. Rimedio supremo per l’ignoranza – nell’etimologico senso di non sapere – è l’informazione: ci sono articoli, ci sono persone pronte a darci dettagliate spiegazioni. Eppure mi chiedo: esiste un rimedio per la passività socio-politica e civile degli apolidi? Esiste un modo per ritrovare il senso di appartenenza?

Mi concedo la licenza di anticipare un pensiero, legittimo e confivisibile, e di rispondere prima ancora che la domanda sia posta: no, votare a distanza il 4 dicembre non è una soluzione. Una crocetta non basterà a sollevarci dal profondo disagio interiore. Ecco cosa vorrei: vorrei poter invitare la mia terra per una telefonata su Skype, osservarne i cambiamenti nei tratti somatici e chiederle, di persona, cosa c’è che non va e in quale modo potrei, io, aiutarla in un suo bisogno.


Fontewikipedia.org
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Identikit banale, non molto dissimile da quello di migliaia di coetanei che hanno lasciato il porto sicuro alla ricerca di mari più dinamici. 24 anni, un foglio di carta che mi definisce dottore col rito abbreviato, la corsa al secondo che arriverà presto. Nata ad Avellino, vivo a Varese, studio a Losanna. 5 anni di vagabondaggio, 3 città e 4 traslochi. Solo 3 città e 4 traslochi, si può fare di più. Molti hanno già fatto di più. L'ansia di dover correre, la paura di arrivare tardi, la fretta di vedere i risultati. Eppure nulla mi farebbe tornare indietro. Non baratterei il metallo più prezioso per nessun istante della mia crociera. Ogni volto, storia, superficie, profumo, boccone fa parte dei miliardi di cellule che porto a spasso nel mondo. Odysseo è la nave che stavo cercando, l'equipaggio di marinai di cui sento di far parte e al cui coro vorrei aggiungere la mia voce per narrare al mondo le bellezze e le difficoltà che danno colore ai nostri viaggi.