«Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; 
ché così è a lui ciascun linguaggio 
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto»

(Inferno, XXX); vv.79-81)

Il canto trentunesimo vede i nostri eroi abbandonare finalmente Malebolge. Come in tutti i canti di transizione, Dante e Virgilio troveranno soccorso in un improbabile e imprevedibile aiutante per superare il confine tra l’ottavo e il nono cerchio e sarà il gigante Anteo a prendere i nostri sulle sue mani per depositarli oltre un enorme argine roccioso, al fondo della ghiaccia del Cocito.

In effetti, i giganti sono i protagonisti della scena. La voce di Virgilio presenta in sequenza Nembrod, Fialte, Tizio, Tifeo e il già citato Anteo. Con il tipico sincretismo dantesco tra mondo biblico e immaginario pagano, scene bibliche si affiancano al mito classico e Nembrod viene accostato a quanti sfidarono Giove nella Titanomachia.

In particolare, colpisce il fatto che, quando Nembrod apre la bocca, emetta suoni indecifrabili: «Raphél maì amèche zabì almi» (v.67). Virgilio risponde appellandolo «anima sciocca» (v.70) e aggiunge che non gli resta che sfogare la sua rabbia suonando il corno, proprio come Orlando fece dopo la rotta di Roncisvalle, atteso che il suo stesso gergo incomprensibile lo accusa: è proprio lui, Nembrod, il responsabile della dispersione delle lingue generata dalla superba e fallimentare impresa della Torre di Babele.

Di torri, in realtà, nel canto si parla continuamente: già all’inizio, nella penombra, Dante aveva scambiato i giganti per torri – sono conficcati dalla cintola in giù nella roccia eppure, dalla cintola in su, misurano almeno 6 metri – ed anche in chiusura il gesto con cui Anteo si china a raccogliere Dante e Virgilio è paragonato alla torre pendente di Garisenda, in quel di Bologna.

In realtà, il pensiero va già a quello che sta per avvenire, all’incontro con Lucifero: anche lui ha membra gigantesche, anche lui è conficcato per metà nel ghiaccio del Cocito, anche lui si è macchiato di superbia e ribellione, anche lui voleva farsi Dio.

Di Lucifero toccherà tornare a parlare. Per il momento, quel che mi colpisce in questo canto è l’uso artificioso della parola, una parola che confonde, non comunica e genera divisione.

Già nel canto trentesimo ci eravamo soffermati sugli ululati di chi vuol soffocare la voce della ragione. Qui, la parola si fa serva, prima, e castigo, poi, dell’arroganza tracotante. È la parola che genera Babele, è la parola che si fa torre per salire al cielo. È la parola che implode su stessa nel momento in cui, invece che essere usata per comunicare, si riduce a mero strumento di potere e di inganno.

Al punto che la stessa parola, nata per essere tratto distintivo dell’uomo e della donna, muta in forza cieca e bruta, in bestialità che non si può ricondurre a ragione, ma solo incatenare. Oppure che si può, ancora con parole menzognere, sedurre e abbindolare, proprio come fa Virgilio con Anteo.

In effetti, la suasoria che il Maestro rivolge al gigante è l’esempio di ciò che non dovrebbe essere una parola chiara, è l’incarnazione plastica di una parola che raggira, ricorrendo alla captatio benevolentiae e, in misura ancora maggiore, celebrando le doti dell’interlocutore con un discorso evidentemente antifrastico. Vale a dire: dicendo una cosa e pensando il suo esatto contrario. Proprio quello per cui la parola non è nata. Proprio quello a cui la riducono uomini che si comportano da bestie.

Wilkie Collins:«Le nostre parole sono come giganti quando ci fanno un torto, e come nani quando ci rendono un servigio».

Marshall Ronseberg: «Le parole sono finestre (oppure muri)».

Stefano Benni: «Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...