«Trovare la parola giusta è così importante.
Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore»
(Mehdi Belhaj Kacem)
A parlar del male ci si fa male. Ne sono proprio convinto. Le parole possono essere cuscini o coltelli. Lame per affettare il pane e spalmare una confettura di frutta fresca o pugnali per colpire alle spalle, come il più meschino dei proditori.
Il Covid-19 ci sta insegnando anche questo. Basta trascorrere pochi minuti al giorno nel mare in tempesta dei social per rendersene conto. Ci sono quelli che continuano a disseminare messaggi di speranza e ci sono quelli che provano un evidente gusto sadomaso ad alimentare la retorica del complotto, a indovinare oscure manovre di potere, a dire che ce l’hanno tutti con gli Italiani, no, con i Lombardi, no, con i Veneti, no, con tutti quelli del Nord, no, con tutti quelli del Sud, no, con i Cinesi, no, con vattelapesca: di tutto di più, purché ci sia un nemico, purché se ne possa parlare, purché si possa dire “noi” e “loro”; noi che siamo bravi, loro cattivi, noi traditi, loro traditori, noi sfigati, loro fortunati …Eccetera. Eccetera.
E la sensazione è di gente avvelenata che non può fare a meno della sua dose quotidiana di malignità, che ha anzi bisogno di raddoppiarla e triplicarla, che ha come unica consolazione quella di spargere nelle menti e nei cuori degli altri il medesimo veleno che l’attossica. E se Shakespeare suggeriva che il rancore avvelena chi lo nutre, ecco che il Coronavirus ci svela che il rancore nutre chi avvelena.
Ma anche no! Ma anche basta! Ma anche: come sarebbe bello e liberante e leggero usare parole di luce! Parole che fanno bene, che non solo lo dicono: lo fanno proprio, ed esattamente nella misura in cui lo dicono, alla maniera di cuscini disposti nel modo più adatto ad alleviare il dolore.
C’è un’espressione latina che può venire in nostro aiuto. In latino, non si “dice grazie”. Per ringraziare, i latini dicevano: ago tibi gratias, letteralmente, “faccio grazie a te”. Ti faccio grazie: già con le parole. Ti faccio grazie! Non ti zavorro di rancore, ti insemino di luce, ti amo col suono della mia voce. Insomma, come mi ha insegnato una persona a cui tengo molto: grazie si fa. Che bellezza, che poesia: di quella che si fa e non si dice.
Don Primo Mazzolari ci illumina: «Quando non si ha più niente da dare perché si è dato tutto, allora si diventa capaci di veri doni». Mi piace provare a tradurre in altro modo il suo pensiero: lasciare le parole cattive, non ospitarle neanche quando ci vengono sputate addosso, lasciarle cadere e …donare solo parole di grazie.
Ecco, all’alba di Pasqua, per tutti, credenti e non credenti, sarebbe bello poter dare anche ciò che non si ha, lasciar cadere ciò che sporca ed essere in grado di cantare: «Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Oppure, con Niccolò Fabi:
«Respiriamo cosa siamo
E decidiamo di essere
Nutrimento di ogni tempo
Sta nel vento è polline
L’aria è come noi
Questa è l’aria intorno a noi
Novo mesto intorno a noi»
“Nove mesto”, in slovacco, significa “città nuova”. Italo Calvino direbbe: «D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».
E la domanda potrebbe essere: se non ora, quando?