«La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto»
(Inferno XXXIII; vv.1-3)
Dovrei rinunciare a scrivere di questo canto. Dovrei semplicemente invitarti a leggerlo e meditarlo in silenzio. Ma il nostro appuntamento dura ormai da tanto e non posso sottrarmi. Solo, proverò ad essere sintetico: quando le parole non bastano, è preferibile usarle con parsimonia.
Quel dannato sollevò la bocca sollevò dal pasto bestiale, pulendosi le labbra ai capelli del capo che aveva già addentato alla nuca: inizia così il canto trentatreesimo dell’Inferno, noto come il canto di Ugolino, e che contiene molto altro.
In effetti, esso è diviso in due sezioni simmetriche: la prima avviene ancora in Antenòra, che abbiamo già detto essere dedicata ai traditori della patria; la seconda ci vede entrare nella Tolomea, la terza zona del Cocito, dove sono puniti i traditori degli ospiti; peraltro, ciascuna delle due sezioni è chiusa con un’invettiva contro città rivali, rispettivamente Pisa e Genova, patria di Branca Doria, compagno di pena di frate Alberigo.
Quest’ultimo è il grottesco e crudele protagonista della seconda parte, reo di aver tradito i suoi stessi parenti. Dante gli estorcerà il nome dietro la promessa di rimuovergli il ghiaccio dagli occhi, ma ottenuta la rivelazione del suo nome e del suo misfatto, tradisce il traditore, non mantenendo la propria promessa: «e cortesia fu lui esser villano» (v.150).
Ma torniamo a Ugolino.
Il suo monologo è diviso in tre parti: il sogno premonitore in cui un lupo e i suoi lupacchiotti vengono inseguiti, raggiunti e sbranati da cagne fameliche; il momento in cui la porta viene inchiodata; infine, lo stillicidio straziante della morte per inedia dei quattro figli, che cadono ad uno ad uno mentre Ugolino assiste impietrito e impotente.
Fino a quell’ultima affermazione che non cessa di attirare l’attenzione degli esperti: «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno» (v.75) …Forse che Ugolino ha accolto l’invito dei suoi stessi figli e ha ceduto al cannibalismo? Si è nutrito delle loro membra crude e tenere? L’istinto di sopravvivenza ha prevalso sull’amor paterno? Oppure Dante vuole semplicemente sottendere che Ugolino non è morto di crepacuore ma, a sua volta, di inedia?
I dantisti dicano pure la loro e peraltro precisino che, in realtà, la verità storica è un’altra: dal mio cantuccio, mi limito a ritenere che la grandezza di un narratore sia nel non dire tutto, nel lasciar correre l’immaginazione, nel dar voce al silenzio. E dico che Dante è un maestro nell’uso dell’aposiopesi (la sospensione del discorso) e dell’anfibologia (il parlare a doppio senso) abilità, quest’ultima, che mette in mostra in questo stesso canto, facendosi beffa del beffardo Alberigo.
E poi penso che il vento gelido di Lucifero, che sferza il volto di Dante, ci ricordi una volta di più che non c’è limite al mistero del male: non in questa terra, almeno, non al centro dell’Inferno.
Punire dei figli innocenti in luogo della colpa del padre? Una bestia forse non lo farebbe. L’uomo ne è stato mille volte capace. La storia non insegna, se continuiamo a ripeterla.
Non resta che «parlar e lagrimar» (v.9). Oppure tacere.
Virgilio per bocca di Enea: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt», ci sono le lacrime delle cose e le cose mortali toccano la mente.
Ludwig Wittgenstein: «Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le “possibili” domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati».
Vito Mancuso: «Il bene è l’evento più nobile a cui l’uomo può accedere».
I suoi articoli beatificano la mia ignoranza.
Spetta al Buon Dio donare i frutti dell’Albero della Conoscenza per beatificare chi li riceve.
Grazie
Grazie mille, Vittorio!
…siamo tutti ignoranti: io almeno mi sento ignorante tanto quanto lei. Un abbraccio grato.