Dischiusa la portiera, tocchi, timidamente, terra. San Marco in Lamis. Cittadina garganica comodamente sdraiata in un’accogliente conca calcarea. Alzi la testa al cielo. Turchino. Una minuscola nuvola, vicinissima, ti sorvola, veleggiando per orizzonti lontani. “Beata te!” le sussurri.
Le tue parole toccano la vagabonda. Ti sorride, svolazzando con i suoi delicatissimi veli frastagliati. Eterea si china e porge brandelli evanescenti. Glieli stringi. Con altri ti accarezza le spalle. La loro vaporosa levità ti entra nel cuore.
Respiri, ora, la tenue aria del paese che diede i natali a Joseph Tusiani, un gigante della letteratura, misconosciuto a gran parte degli Italiani, come il pane buono e nutriente che si mangiava una volta. Negli Stati Uniti molti apprezzano le opere letterarie del grande sammarchese, la sua tenacia, l’entusiasmo per la vita. L’umiltà. Parla fluidamente in latino. Più volte hai sgranato gli occhi, ascoltandolo, tuffandoti nei suoi profondi occhi. Leggendolo, hai fremuto, palpitato.
Dalla foce dell’Ofanto sei arrivato fin qui, per capire il senso profondo di “Grani futuri” e le sue prospettive, un evento culturale, sociale, culinario. Che intende con entusiasmo e passione ridare dignità al pane, un alimento, diffusamente deprivato negli ultimi tempi dei suoi valori nutritivi, morali, ecologici.
Un volta il pane era il cibo più importante di ogni mensa. Neanche una briciola, bisognava profanare. Guai a tenere sotto sopra una pagnotta! Era di cattivo augurio. Non vi era casa in cui le massaie non producevano numerose grandi forme dalla crosta croccante e la mollica soffice come seni femminili.
Di buon mattino, infatti, le mamme si levavano dagli umili giacigli per impastare il pane. Gli ingredienti erano semplici: farina, sale, acqua della fontana pubblica, lievito madre, fame atavica e, come valore aggiunto, l’amore.
La farina proveniva da antichi grani del territorio, che non avevano ancora subito la violenza della chimica e delle modificazioni genetiche. Allora, i mulini a pietra macinavano interamente i chicchi della spiga. Farina integrale, saporita, odorosa, nutraceutica, da consumare rapidamente, altrimenti si formavano i gorgoglioni, da eliminare eventualmente con un setaccio.
I giovani garzoni dei fornai, mani e visi perennemente neri, arrivavano con biciclette senza freni. Sistemavano le varie pagnotte su tavole traballanti, e via di corsa, zigzagando, al forno. Mai che uno di loro ruzzolasse. Quando, poi, il profumo inondava il fuligginoso forno, il pane, ambrato, come tanti migranti di oggi, fumante, rincasava. Felice.
Era una festa il ritorno a casa del pane. Con avidità i piccoli si fiondavano su una pagnotta, staccandone un cantino. I denti affondavano con ingordigia e la grondante ptialina si precipitava a rivoli nella bocca in fermento. L’indomani i contadini in campagna mangiavano pane e… coltello.
Da alcune decine di anni a questa parte, però, pane non se ne produce più in casa. Ci si è affidati a panificatori professionali del territorio o a grandi aziende nazionali. Le massaie si sono liberate di una fatica, delle levatacce, ma quanta bontà è andata perduta con l’estinzione del laico rito familiare.
Ora, si fa ricorso al lievito di birra per bruciare i tempi di lievitazione. Si perdono, perciò, fragranza, perdurante sofficità e digeribilità che solo il il lievito madre, rianimato periodicamente, può garantire.
Si utilizzano grani ad alta resa e scadente qualità, massicciamente trattati con pesticidi e glifosate che piovono dagli aerei. Si elimina la crusca, rinunciando a farle svolgere l’importantissima funzione di tenere pulito l’intestino e sotto controllo i valori glicemici. Si scarta il germe, ricco di sali minerali, enzimi e vitamine, per stoccare a lungo la farina in volumi considerevoli. Si aggiungono i cosiddetti miglioratori ed integratori.
Dopo appena un giorno, il pane, bianchissimo per l’utilizzo di perniciose farine raffinate, diventa duro come la pietra. Manca la fragranza, si riduce l’appetibilità. La salute della gente ne paga prezzi elevatissimi. Eppure oggi è riconosciuto da tantissime ricerche scientifiche il valore nutraceutico del buon pane integrale, preventivo di malattie, migliorativo della salute e ritardante il processo di invecchiamento.
Sono poche ormai le famiglie che provvedono direttamente alla produzione del pane, acquistando antiche farine del territorio, prodotte biologicamente. Stanno proliferando, nel contempo, avveduti panificatori, desiderosi di immettere sul mercato prodotti di qualità contenenti tutte le caratteristiche organolettiche.
In quest’ottica si è mosso anche Antonio Cera, artefice della manifestazione internazionale. “Economista fornaio” si definisce. Una bella testa tonda, occhi vivaci, voce calda. Un uomo di cultura, che ha studiato alla “Bocconi”, l’Università che crede ancora nella crescita all’infinito.
Orgogliosamente, ha fatto ritorno nel suo paese natio… per produrre pane di qualità, assieme alle due zie ed alla vecchia madre… per contrastare la logica del prezzo al ribasso, che non remunera equamente il contadino, il mugnaio e il fornaio… per valorizzare le risorse del territorio… per ridurre lo spettro della disoccupazione… per combattere la criminalità.
C’è bisogno di ottime materie prime, professionalità e lungimiranza, per conseguire le finalità sognate. Perciò, incalza gli agricoltori a produrre ad un prezzo equo grano antico di qualità. Sollecita i colleghi panificatori, a privilegiare la cultura del pane di una volta. Esorta, inoltre, i consumatori, con argomentazioni fondate, a rifornirsi ed alimentarsi di vero pane integrale che non mette a repentaglio il suolo, l’aria, l’acqua l’economia del territorio e… la salute.
Da solo non può farcela, la strada è in salita. I suoi studi universitari gli hanno fatto maturare la convinzione che occorre creare una rete tra tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo, per sviluppare un’altra visione della società e del territorio, generando salute, biodiversità, solidarietà e benessere.
Quest’anno prende il via la seconda edizione dell’evento “Grani futuri”, un programma dispiegantesi in un variegato ventaglio di proposte. Perciò, sono stati chiamati a raccolta agricoltori, intellettuali, panificatori, artisti, gente del territorio e chef da ogni regione d’Italia e dall’estero, per ridare linfa nuova all’alimento più antico del mondo, confezionato dall’uomo in una infinita molteplicità di forme, dimensioni ed ingredienti.
Dalle ore 19 in poi di sabato e domenica viene aperta Via del Gusto lungo la quale si tendono per mano 20 bianche postazioni lignee. Comincia il passeggio. Si accendono i lampadari che riciclano cassette di legno per la frutta. Ora, presso le lignee postazioni, arrivano alla spicciolata, gli avventori. Sembrano interessati maggiormente alle novità alimentari che alla bontà del prodotto, alla genuinità, alla tutela della biodiversità, alla salvaguardia del territorio, al rispetto del lavoro dei contadini.
Essi possono conoscere ed assaggiare le sane leccornie prodotte e commentate. Uno chef ed un fornaio, per ogni casetta, infatti, offrono degustazioni, legate alla propria terra, cultura e al proprio stile artistico. Agli assaggi si accede con un ticket di 10 euro che consente di ottenere quattro consumazioni, oppure due porzioni di cibo e due bicchieri di vino. Per l’occasione, vengono utilizzati solo piatti, posate, bicchieri e tovaglioli compostabili.
Partecipando all’evento “Grani futuri”, si può conoscere lo splendido territorio del Gargano. Nutrito, il numero di visite al centro storico, passeggiate per la scoperta delle erbe spontanee e delle orchidee selvatiche. Trekking e mountain bike per chi ama le sfide impegnative.
Attraversando la villa comunale, imbullonata al terreno da enormi blocchi, raggiungi la sede del Mercato coperto, una grande navata centrale e due laterali. Oggi, si produce pancotto. Non è facile farsi strada, tra una marea di gente vociante, che sospinge transenne traballanti.
Ne hai mangiato di pancotto, profumato di alloro, quando indossavi pantaloncini corti e le tue gambette erano frequentemente sbucciate per le cadute sulla bianca strada. Non appena tua madre, cavandolo dalla pentola di alluminio gorgogliante di acqua in ebollizione, lo adagiava nella scodella, come un bambino nella culla, e lo santificava con una croce di olio extravergine, la vorace forchetta partiva all’attacco. In men che si dica il microbiota umano era pronto ad entrare in azione.
Oggi, chef professionisti, provenienti da varie parti dell’Italia e personaggi autentici del territorio reinterpretano liberamente secondo il proprio estro, l’antica ricetta del pancotto. Un piatto povero, ideato dal mondo contadino che non voleva né poteva sprecare il pane raffermo. Un ritorno alle origini, alle specifiche tradizioni locali e familiari.
Tavoli di acciaio inossidabile ospitano tocchetti di pane raffermo, patate, fagiolini, peperoni, lenticchie, erbe spontanee, spezie, sale, olio, barattoli vari. Le vivaci fiamme dei fornelli fanno ribollire convulsamente l’acqua e generare vapore che porta i coperchi delle pentole a saltellare rumorosamente. Un frenetico gorgoglio si diffonde nell’aria, e nuvole di densa di umidità danzano voluttuosamente.
Dietro le transenne, una marea di gente commenta lo svolgimento della gara ed avanza pronostici. Le lingue di molti avventori, scorrendo sulle umide labbra, pregustano già le leccornie in arrivo nelle bocche affamate. Non appena la nutrita giuria elabora le proprie valutazioni, inizia la distribuzione del pancotto, e una selva di braccia si proietta in avanti, come un nugolo di lance.
Dalle ore 16 alle 22, nello stesso locale, vengono realizzate attività didattiche per educare i piccoli alla sana alimentazione. Intanto, nel “salotto letterario” Pino Aprile, autore di “Terroni”, conduce incontri per valorizzare l’identità culturale e colturale del Sud. Lunedì, inoltre, è possibile assistere alla mietitura del grano sia come si faceva una volta che come si pratica oggi.
Tutto il paese è coinvolto nella kermesse. Artisti di strada si esibiscono nei vicoli. Persone anziane del territorio rievocano proverbi, storie e leggende, mentre massaie fanno dimostrazioni culinarie. Il ricchissimo programma si conclude nella strada con “Facite Ammuina”, animazione fatta di balli e musiche popolari.
“Grani futuri” si chiude con una cena di beneficenza a base di pane. In ogni piatto, dall’aperitivo al dolce, il ruolo di protagonista lo svolge la pietanza rievocata dalla preghiera del Padre Nostro. L’incasso verrà devoluto alla Clinica di Oncologia Pediatrica “Casa Sollievo della sofferenza” di San Giovanni Rotondo.
Ti rimetti in macchina, L’aria è fresca, un leggero venticello scende dal Gargano verso la pianura. In uno degli ultimi tornanti una mucca podolica, svegliata dalle luci abbaglianti, ti saluta agitando la sua simpatica coda. Ti cali nei mansueti occhioni addormentati. Sembra dirti, muggendo: “Considerando che “Grani futuri” è ancora ai primi passi, il giudizio è, sostanzialmente, positivo. Ideando le prossime edizioni, sarebbe utile, però, eliminare sbavature, ridurre l’invadente presenza del marketing, della logica consumistica ed incentivare tra la gente un’informazione mirante a cogliere i nessi tra alimentazione, salute e territorio.
Un grande contributo, in tal senso, possono darlo personaggi del mondo della sanità, del diritto e della cultura come l’epidemiologo Franco Berrino, il naturopata Pino Africano, la psichiatra Erica Poli, l’oncologa Patrizia Gentilini, il vegano Valdo Vaccaro, il filosofo Umberto Galimberti, l’economista Andrea Strozzi, il poeta Franco Arminio, il presidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena.”