«Dona nobis, dona nobis pacem …Dona nobis, dona nobis pacem»
Pacem: dona a noi la pace. Un canto, continuo, perenne, ininterrotto. Un bisogno urgente, un’invocazione inarrestabile.
«Dona nobis, dona nobis pacem …Dona nobis, dona nobis pacem»
Dagli occhi sgorgano fiumi di lacrime aride, nel cuore una morsa soffocante, la tristezza di chi non ce la fa più a sopportare il peso delle difficoltà. Delle morti quotidiane, delle libertà negate.
Lo schiaffo a piene mani, ogni giorno, di ideologie subite, di pensieri malati, dell’assurdità della realtà che sembra, quotidianamente, capitombolare in situazioni tragiche, in conclusioni assurde.
Le sbarre di ferro imprigionano le speranze di molti, oltre che i corpi martoriati dalla cattiveria umana, dalla banalità del suo agire, dalla pateticità del male verso un simile, così inspiegabilmente diverso.
Nulla è certo, neanche il giorno di domani. Non esistono i progetti, i sogni arrancano a vivere, alimentati in maniera stregua dalla fiducia che qualcosa possa cambiare, che ciò che è ingiusto torni diritto, che ciò che è illogico ritorni alla normalità.
Urla strazianti soffocano i cieli, una polifonia armonica di lamenti, note altissime di desideri e gravissime di dolore, di morte, che si fondono insieme a creare accordi melodici di sinfonie ineseguibili.
«Dona a noi, dona a noi la pace… Dona a noi, dona a noi la pace…
La pace. Che cos’è la pace? Neppure io che sto scrivendo riesco a darne una definizione dettagliata, quel giro di parole puntale da esaurirne la carica, la potenza espressiva.
Utopia, forse?
No. Non posso cedere alla convinzione che la pace sia qualcosa di irrealizzabile, di impossibile, anche se tutto attorno sembra urlare il contrario, sangue versato, innocente, martire della follia umana. Può una fetta dell’umanità pagare per l’incuranza altrui, per scopi meschini di pochi? Possono queste persone essere vittime sacrificali di questo sistema pazzo che si prostra, devoto, al dio denaro, che annichilisce le coscienze, le prostituisce, le svende a buon mercato?
Eccoli, sono loro, i nostri fratelli, gli agnelli di Dio.
Ho letto da qualche parte, nei miei primi studi biblici, dell’antica usanza della festa ebraica dello Yom Kippur – in cui si ricorda la riconsegna delle tavole dell’Alleanza a Mosé dopo l’infedeltà degli ebrei con il Vitello d’Oro nella fuga dall’Egitto – di mandare un capretto nel deserto, dopo che su di esso venivano caricati tutti i peccati d’Israele, cosicché, morendo, espiava da innocente colpe non proprie.
Ecco! Ecco cosa ne abbiamo fatto dei nostri fratelli: dei poveri Cristi, mandati a morire, lontani dai nostri occhi, così da non sentire l’ingiustizia che ci abita bruciarci dentro. Vediamo le nostre bacheche social, i nostri telegiornali e i media riempirsi di immagini raccapriccianti, da molte zone del mondo siamo bombardati di notizie di guerra, disastri, povertà, fame. Le lacrime disperate ripuliscono i volti scuri imbiancati dalla polvere dei calcinacci di palazzi distrutti, i capelli scompigliati di donne e bambini che non hanno più parole, nemmeno per urlare la mostruosità del loro quotidiano.
Voci di uomini che gridano aiuto ci interpellano dal torpore nel quale siamo intrappolati. Yemen, Siria, Afghanistan, Africa, Palestina, terre di storia e conflitto, letteratura e guerre, tradizioni e inferno, in coro chiedono uno sguardo, un’attenzione, un gesto. Una mano che li salvi, una preghiera che allieti almeno le loro pene giornaliere.
«Dona nobis, dona nobis pacem… Dona nobis, dona nobis pacem…»
Papa Francesco, nel recente Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace 2018, ha scritto: «Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. […] Chi è animato da questo sguardo (contemplativo) sarà in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e si prenderà cura della loro crescita. Trasformerà così in cantieri di pace le nostre città, spesso divise e polarizzate da conflitti che riguardano proprio la presenza di migranti e rifugiati.
Certo, la pace è scomoda, esigente. Fa appello a noi in prima persona, al nostro impegno nell’aver cura del nostro mondo, nel custodire con sacrificio la vita già a partire dalle situazioni che ci circondando.
La vita è propedeutica alla pace. In un mondo come il nostro che la vita l’ha ridotta ad una provetta o la uccide in un feto, la disprezza se ha la pelle nera o la lascia morire sui barconi nel Mediterraneo, le sbattiamo la porta in faccia se cerca rifugio o le poniamo fine quando ci ha stancato, la pace è abbastanza difficile da realizzare, ma già averne consapevolezza è un primo, sostanziale passo.
Sperare nella pace, in un mondo migliore, significa sperare in un uomo migliore, che accanto agli altri uomini formi un’umanità attenta, libera, che rifiorisce dal male che la ferisce e che si impegni, si sporchi nel creare già da oggi un domani sereno per tutti.
Ebbene sì, noi osiamo ancora sperare nella pace. Ha senso la nostra invocazione, non siamo degli illusi.
La pace, qualcosa di troppo grande per definirla, pensarla, ma troppo necessaria, troppo urgente per non sforzarsi di lottare per crearla.
Passo dopo passo, giorno dopo giorno.