
Da anni nel mese di ottobre le comunità cristiane sono chiamate a una profonda riflessione sulla propria missionarietà, ma… quale missione?
Un interrogativo non retorico, ma fortemente virale: una missione della Chiesa o una missione nella Chiesa? Saranno certamente gli stimoli captati dai lungimiranti a indirizzare attenzioni, considerazioni ed energie.
Quando la fragilità e il limite diventano occasione di irrigidimenti strutturali, piuttosto che occasioni di relazione con l’altro, è problematico districarsi tra fede e vita. Così come è raccapricciante, a volte, toccar con mano “la cattiveria” di cui sono capaci alcuni soggetti, la cui vocazione, per pubblica scelta, sarebbe dovuta essere quella di testimoniare la bontà di Dio. La diffamazione, elevata a sistema per annientare professionalmente l’altro, non fa che rendere sempre più sporco quel pulpito da cui forse si vuole raccattare consensi, piuttosto che diffondere una spiritualità “riparatrice” che ridoni vita e coraggio. Qui il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene più adeguatamente le distanze qualora una “spiritualità vittimale” non prenda il sopravvento…ma fin dove? Per giustificare, avvallare o scusare quell’operato?
Non dimentichiamoci però che con il termine “spiritualità” si intende uno stile di vita, originato e derivato dall’esperienza religiosa personale, vissuto nel concreto della propria esistenza, in una prospettiva soprannaturale a lungo termine. Panikkar parla in proposito di un “terzo senso” quale “barlume” più o meno chiaro che indica nella vita qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente. Un “qualcosa in più” di ordine diverso, che non è un prolungamento orizzontale verso ciò che ancora non sappiamo o ancora non siamo, ma è piuttosto un salto verticale verso un’altra dimensione della realtà.
Questa spiritualità non va confusa con la pratica religiosa. Quest’ultima, da sola, quando non è accompagnata da un’adeguata presenza di spiritualità, rischia di divenire una serie di preghiere ripetitive, che sono effettuate nella stessa maniera, con gli stessi cicli, come strumenti per connettersi a Dio… con un piccolo problema: l’autoreferenzialità. È la geografia del dolore provocato, che interpella la religiosità e la invita alla sfida sul piano della coerenza e del senso.
Qui l’accusa frequente alla Chiesa: falsa, bigotta, insincera. Non è un’accusa infondata, perché alimentata da un raggiro, ma molto umana: si confondono le acque per nascondere ciò che non sarebbe decoroso per i seguaci del Signore; quasi che offrendo una buona immagine di se stessi, la credibilità continua a essere alta. Ma la cultura moderna conosce bene le falsità programmate: si pensi alla pubblicità e alle logiche ad essa connesse. La riscoperta della sincerità e quindi della fragilità dei fedeli al Signore, non può che giovare.
La sincerità e l’umiltà ci inducono ad avere una relazione obiettiva con noi stessi, a riconoscere e proclamare il nostro stesso errore e annunciare l’intenzione di un suo sofferto superamento. Si avverte anche l’esigenza di cominciare a leggere la realtà da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi…vittime di decisioni avventate e spacciate per “geniali”; quindi l’invito a passare dalla “conoscenza” alla “sapienza”, un passaggio che solo un vero rinascimento spirituale può effettuare, con l’ausilio di un’autorità che non si limiti ad assecondare passivamente, ma che liberi, promuova, orienti, perché non vi è autentica missione nella stasi, nel silenzio di chi viene messo a tacere, ma nel subbuglio degli inquieti, nel dubbio che istiga, nella speranza che risveglia. Il tutto condito di tenerezza.
La tenerezza diviene così un habitus, un vestito che l’animo sceglie di indossare per incontrare più pienamente Dio per poi guardare alle proprie bellezze e ai propri limiti. Ma è anche i mezzo per incontrare l’altro nelle sue ricchezze e nelle sue spigolature, ricostruendo e facendo fiorire una fraternità nonostante i vandalismi istituzionali, dove le vittime appaiono per quelle che sono: con il loro bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapaci di nascondere una realtà che li umilia e li ferisce.
In questa missione, la tenerezza diventa l’habitus specifico dell’amore; non è un fatto morale, ma qualcosa che modella l’immediatezza delle azioni, perché le dispone verso una dolcezza capace delle vette più alte.