Legalità, scienza e discrezionalità giudiziaria al servizio della giustizia
Il broccardo “Nullum crimen, nulla poena sine lege” riassume incisivamente il principio di legalità, punto di partenza e di chiusura dell’ordinamento giuridico inteso come ordo ordinatus. Ciò che oggi appare una conquista sedimentata nelle radici più profonde della cultura del giurista dei Paesi di Civil law, a rigore, costituisce l’oggetto di una datata vexata quaestiodel pensiero giuridico. La legalità nei suoi corollari formali – riserva di legge tendenzialmente assoluta e irretroattività – si è sostanzializzata nei versanti logici attenti al contenuto della legge medesima. Al legislatore contemporaneo, infatti, è posto inderogabilmente il vincolo del rispetto del principio di tipicità, del principio di tassatività come divieto d’analogia in malam partem, e di quello di determinatezza in senso stretto, ossia linguistico-dispositivo, e in senso empirico, ossia attinente all’esigenza di assoluta aderenza delle descrizioni dei fatti incriminati in fattispecie ai fatti che effettivamente si realizzano, o possono realizzarsi, in rerum natura e nelle dinamiche sociali dei consociati.
Il percorso di ricerca storico-giuridica finora condotto, e la conseguente maturità civica che esso è riuscito a convogliare intorno ai suoi risultati scientifici, rileva, in alcune stagioni politiche del passato, il lungo resistere della carenza di legalità formale nei sistemi normativi, tanto nel momento della astratta determinazione legislativa dei contegni umani incriminabili, quanto nel momento concernente le garanzie di umanità delle risposte sanzionatorie, affinché queste non si risolvano in una perpetuazione ed accentuazione della criminalità violatrice dei diritti umani fondamentali, tipici della liberalistica tradizionale. Una parte della dottrina penalistica milanese che negli anni ’70 del Novecento ha tanto riflettuto sulla tenuta razionale ed epistemologica della causalità materiale e giuridica della teoria del reato, osservando la storia del diritto ha rilevato negli Stati totalitari di matrice nazista e socialista-sovietica una proclamata svalutazione della stretta legalità, in nome di una vaga legge della storia e della natura, o in nome del c.d. “sano sentimento del popolo”.
Studiando le riflessioni di Autori che hanno elaborato sistemi di pensiero rispondenti ai canoni della logica per l’equità, e dell’etica per una effettiva umanizzazione del diritto penale, e quindi leggendo Maestri come Montesquieu per l’ingegneria costituzionale dei pesi e contrappesi tra poteri separati e funzionalizzati, Cesare Beccaria per i processi culturali del proto-garantismo, Enrico Pessina per la sistemazione di un diritto criminale, “costante tradizione dell’umana famiglia”, nel quale “La legge debbe essere la norma direttrice della potestà civile nella punizione dei delinquenti” (PESSINA), risaltano alla coscienza scientifica altre spiagge della letteratura. Risalta ex adverso, infatti, la concezione di una parte della dottrina giuridica sovietica, la quale all’inizio degli anni ’20 del Novecento ha sostenuto l’inutilità delle finezze giuridiche, “perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente, il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato sradicato” (KRYVILENKO); per non discorrere poi degli estremismi al limite dell’abbattimento totalitario dell’antica saggezza del ius quale ars boni et aequi, nel momento in cui si è giunti a sostenere che “la presunzione d’innocenza è una freccia velenosa” usata dai soggetti non affini alle proprie tesi politiche, “per danneggiare la dittatura democratica del popolo e liberare i controrivoluzionari” (ZHANG ZHIPEI).
In un quadro dottrinario alquanto variegato, occorre studiare le interconnessioni esistenti tra l’evolversi degli istituti e degli statuti personologici, dominicali, e l’esigenza di continuare o meno a punire un cerco tipo di condotte. Il rapporto tra diritto civile e diritto penale nel momento del riconoscimento ‘costituzionale’ della eguaglianza di tutti gli uomini dinanzi alla legge ai sensi dell’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, così, è stato inquadrato come condizione causale per il mutamento ermeneutico del concetto di plagio, considerato nella sua portata distorsiva sin dai tempi degli antichi Romani, e giunto fino al Codice Rocco degli albori degli anni ’30 del Novecento. Non essendoci più la schiavitù materiale in determinati sistemi giuridici, non occorreva più associare il plagio all’assoggettamento schiavistico di natura materiale. Il delitto di plagio è stato poi addirittura dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale italiana, con sent. n. 96/1981.
Dirigendo il percorso di ricerca inerente alla figura del plagio nei differenti contesti storico-giuridici, quindi, si partirà dall’analisi etimologica, analizzando la funzione del termine “plagium” nella lex Fabia di autore incerto (fine III sec. A.C. – inizio II sec. A.C.); tale utilizzo terminologico risulta attestato dalle notissime fonti dei giuristi romani Gaio, Ulpiano, Paolo. Si deve procedere col capire se sia sussistito effettivamente un distinguo tra il reato di furto e i crimini contro il patrimonio a questo assimilabili, da un lato, e una autonoma figura di plagio, dall’altro lato, stando alla primogenita concezione di plagio – seguita fino al secolo XVIII – come instaurazione di un dominio materiale con contestuale causazione di un evento di impossessamento, ovvero di una condotta di sottrazione, trattenimento o vendita di un uomo libero o di uno schiavo. Le fonti cc.dd. barbariche e il diritto medievale testimoniano la stretta inerenza dell’inquadramento concettuale della figura delittuosa de qua alla sovrastrutturazione socioeconomia di una società europea schiavista in senso stretto prima, e servilista successivamente.
Si procederà poi all’analisi della seconda stagione del concetto di plagio, nutrito da concezioni di assoggettamento interpersonale di natura differente, come differente risultava la sensibilità giuridica intanto venutasi a sviluppare; il dolo dell’azione incriminata a titolo di plagio veniva infatti a specificarsi come dolo volto all’illecito sfruttamento di minori per il perseguimento di fini lucrativi. Occorrerà analizzare quindi la ratio dell’art. 145 del Codice penale italiano del 1889, in cui ancora si concepiva il plagio in senso materiale e non psicologico, come invece avverrà in seguito all’avvento della Costituzione del 1948, e quindi con l’intensificarsi dell’analisi sull’elemento subiettivo del reato quale necessario presupposto positivo per l’imputazione di un fatto ad un soggetto. Nel 1966, ormai, la Corte di Cassazione italiana riconosceva espressamente la natura psichica di tale reato e dei suoi elementi costitutivi, con conseguente riconoscimento delle condizioni di vita materiale assoggettata delle vittime quali meri riscontri indiziari (BELLOMO).
Si studierà la pregnanza incisiva del principio di determinatezza nel suo cursus storico-dottrinario, e i suoi punti di contatto col principio di tassatività (entrambi fatti rientrare nel dettato di cui all’art. 25 Cost.), dato che la Corte Costituzionale poi, nel 1981, li ha considerati insieme ed indistintamente nel loro configurarsi come la causa e il parametro normativo di censura ed esclusione, dal sistema legislativo, del delitto di cui all’art. 603 del Codice Rocco, il plagio.
Si pensi pure al complesso e poco marcato rapporto di confine tra etica, morale, costume e diritto penale, e alle interconnessioni fra le anzidette discipline, come nel caso degli atti ritenuti osceni e in quanto tali perseguiti con sanzioni di extrema ratio in più occasioni, nella storia (il reato di atti osceni del codice Rocco, interpretato in modo elastico nei suoi lunghissimi decenni di vigenza, è stato depenalizzato nel 2016, ed ora giace assoggettato al regime di un nuovo e poco esplorato limbo della dogmatica sanzionatoria, costituendo un prius per l’applicazione di “sanzioni pecuniarie civili”).
Per quel che concerne la storia dei delitti che presuppongono la penetrazione, all’interno delle maglie strette e frammentarie del diritto penale, del concetto estetico, etico, morale e di costume che risulta essere l’oscenità, occorre rintracciare i percorsi argomentativi della dottrina e della giurisprudenza che a più riprese e con diversi risultati si sono occupati dell’offesa al decoro e al comune sentimento del pudore, sessuale o non soltanto sessuale, ma anche – più genericamente – sensuale. Sarebbe a tal proposito opportuna una indagine sul grado di tenuta del sistema penale, retto da principi di stretto dominio tecnico-giuridico per i reati cc.dd. formali, e per i reati cc.dd. naturalistici da quelli di dominio scientifico, esatto o non esatto; la formulazione delle fattispecie astratte e generali con formule linguistiche contemperanti categorie non facilmente definibili in quanto vaghe e in quanto avvinte al continuo divenire storico del costume sociale, a rigore, determinerebbe degli attriti anche sotto i profili della ragionevolezza stessa.
Ma vi sono dottrine nella storia del pensiero giuridico che dimostrano la necessità di ordinare i contegni e di improntarli al sano sviluppo delle giovanissime generazioni, onde evitare distorsioni di varia natura. La dialettica tra tradizionalismo e progressismo modernista, così, diventa una prospettiva di ricerca, in cui pur essendo allo stato dell’arte chiare molte delle premesse minori, risultano ancora inesplorate le metodologie di ricerca del criterio discernitivo tra il giusto e l’ingiusto degli oggetti di giudizio troppo mutevoli.
I possibili, quindi eventuali (e sempre falsificabili) risultati di una ricerca che parta dallo scrutinio del valore del principio di legalità, studiata nella sua natura, struttura e funzione attraverso l’ausilio dello studio di dottrina storica, porrebbe dei risultati ipotetici di cui poi occorrerebbe verificare la effettiva corrispondenza alle esigenze dell’ordine, della deterrenza, ma anche a quelle della concezione naturista e laicistica delle libertà della persona.
Dallo studio del concetto di soggezione fisica, psichica o psicofisica nel panorama dottrinario e pretorio della storia, e dallo studio del concetto di oscenità nei diversi ambiti – e tempi – del vivere associato dell’essere umano, a rigore, si potrà ricavare un contributo culturale per una ulteriore presa di coscienza civica, che sappia risaltare le eventuali differenze tra il prima e il dopo delle esigenze di incriminazione e depenalizzazione. Dalla anzidetta tipologia di ricerche, quindi, si potrà guardare a peculiari fatti giudiziari e politico-legislativi del passato per acquisire un bagaglio in più, utile per cooperare nell’edificare degli strumenti scientifici atti alla comprensione della direzione del mondo giuridico contemporaneo.