Mi sono avvicinato al cartone dove siede solitamente per vendere le sue cose: accendini, cinture, orologi. Avevo in mano le buste della spesa, stavo raggiungendo la macchina parcheggiata per tornare a casa.

Un vento freddo si infilava ovunque, prepotente, e appesantiva quel tempo incerto di confusione e timore che vivevamo tutti, in attesa che qualcosa accadesse di bello o brutto.

Lui era andato a prendere una bottiglia di acqua al bar, lo vedevo dalla vetrina. Aveva una mascherina nera e abiti puliti ma consunti. Uscito mi ha riconosciuto. Ci siamo gentilmente salutati. Gli ho chiesto se avesse bisogno di qualcosa.

Ho preso un giubbotto che avevo nello zaino in spalla, mio, uno in più, messo appositamente da parte e gliel’ho donato.

Mi ha guardato commosso.

Non so come si chiama né da dove viene. Lo conosco da più di 10 anni. Comunichiamo con silenzi e cenni di testa il più delle volte.

Avevo una moneta da due euro in tasca, ho poggiato una busta e gliel’ho porta.

Mi ha ringraziato.

E mi ha detto: “Tu hai gli occhi tristi amico mio. Dio non vuole, la vita prova sempre ad allontanarti dalla casa che hai scelto ma è solo per insegnarti a tornare da lei senza perderti. Se non ne hai una, prendi un ricordo, qualcosa che ti è accaduto, un qualcuno e fallo diventare casa tua. La felicità è un uccello bellissimo che puoi mettere in gabbia per trattenerla ma se non la liberi prima o poi muore”.

Ho risposto: “prendiamoci un caffè, ti va?”
Lo ha preso senza zucchero, ha alzato la tazzina prima verso me e poi verso il barista e fatto un cenno con la testa, un piccolo gesto di cortesia.
Ti puoi aspettare gentilezza solo da chi ha letto tanti libri e da chi pur non avendoli letti, potrebbe scriverli con la propria vita.

Non sono molto loquace, preferisco ascoltare, solitamente mi metto in un angolo oppure siedo tra gli altri rispettoso e guardo gli occhi, le mani: si capiscono tante cose.

Ci sono state situazioni in cui ho quasi compromesso amicizie e affetti, sentendo l’esigenza interiore di abbandonare, lasciare, quasi mettermi in salvo. Perché avevo con la mia irruenza, il mio essere tanto e forse poco, messo senza dolo spalle al muro qualcuno. Il bisogno di combattere ogni minuto di silenzio con un’azione o una iniziativa. Poi improvvisamente, voltandomi, mi accorgevo che dietro me avevo confuso e ferito.

L’idea, il solo pensiero di non essermi meritato ogni singolo giorno, di averlo sprecato mi spaventava.

E chiedo scusa, cerco di rimediare quando è troppo tardi.

Lui, il mio amico di un altro paese vive in pace, sereno, ha tanti problemi ma è sempre coraggioso e gentile quanto uno di quegli alberi che in mezzo al nulla ti danno la sensazione, salendoci sopra, di poterti salvare da chi e cosa ti inseguono.

Aggiunge guardandomi, serio:
“Io la sera tardi prima di andare a letto prego, ringrazio i miei figli per l’amore, mia moglie per la pazienza e il rispetto, le mie mani e le mie.