L’alfabeto di Dante
Colpisce che Francesca da Rimini, così gentile e delicata nel racconto del suo amore per Paolo, concluda il suo dialogo con Dante indirizzando parole d’odio nei confronti di Gianciotto, suo marito e omicida: «Caina attende chi a vita ci spense». La Caina (da Caino, figlio di Adamo e primo omicida della storia) è la zona dell’inferno dove sono condannati i traditori dei parenti, ed è lì che Francesca si augura possa finire per sempre suo marito. Le parole della donna sono risultate così poco adatte alla sua anima gentile, che qualche critico le ha riferite a Paolo, dimenticando però che Francesca è pur sempre un’anima dannata, destinata a vivere per sempre lontana dal Bene. Scrive il Parodi: «Appena l’ultima parola della tragedia, la parola di morte, è scoppiata sulle sue labbra, l’odio contro colui che la uccise nella colpa, trabocca implacabile, tramutandola per un istante nella furia della vendetta». Che siano parole d’odio o semplice constatazione della giustizia che Dio applicherà a Gianciotto, Francesca è sì l’eroina della passione, la testimonianza più gentile della filosofia d’amore di Cavalcanti («Quanti dolci pensier, quanto disio» (Inf. V, 113); tuttavia, ella rimane tragica testimone delle gravi conseguenze di quel bacio, presto tramutatosi in passione travolgente e insana. Certo, la visione di Dante è figlia del suo tempo, dove il matrimonio garantiva rapporti stabili tra le varie casate, impegnate a conservare e garantire il più possibile la stabilità della società; tuttavia, l’episodio di Francesca rimane una straordinaria testimonianza di quanto il cuore dell’uomo sia incline al bene, e con molta più facilità al male. Per U. Bosco la poesia di Francesca costringe il lettore a meditare sul «contrasto tra dolcezza di vivere e dovere, (…) la possibilità di essere traviati anche da premesse apparentemente di alta spiritualità».
Nell’atmosfera pacata del Purgatorio, è un’altra donna ad emergere e a racchiudere la sua vita in pochi versi: Sapia. E anche in questo caso i critici si sono divisi tra chi considera il resoconto che la donna fa della battaglia tra Siena e Firenze in Val d’Elsa una mera descrizione dei fatti priva dei sussulti d’odio, incompatibili con la dolcezza e l’elegia secondo regno, e chi invece riconosce alla donna «la stessa satanica compiacenza, provata il giorno della sconfitta dei suoi» (L. Pietrobono). Leggiamo dunque i versi di Sapia:
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ‘l merlo per poca bonaccia. (Purg. XIII, vv. 109-123)
Diversamente da quanto potesse far pensare il suo nome, Sapia non fu saggia; ella infatti soleva compiacersi più delle disgrazie altrui che della sua buona sorte. Divenne «folle», superando ogni umano e ragionevole limite, quando era già nella seconda metà della sua vita. Giunti i suoi concittadini presso Colle Val d’Elsa, ella pregò Dio di ciò che poi volle. Nella battaglia coi fiorentini, i senesi furono sconfitti e fuggirono, mentre la sua gioia diveniva più grande tutte le altre. In preda a questo fremito di folle odio, osò sfidare Dio gridando: «Ormai più non ti temo».
Le parole di Sapia lanciano una sfida a Dio, macchiando la sua anima di superbia, il primo e quindi più grave vizio del Purgatorio, da cui discende la stessa invidia. Tuttavia la sua vita si conclude con una richiesta di perdono a colui la cui bontà «prende ciò che si rivolge a lei» (Purg. III, 123): «pace volli con Dio in su lo stremo / de la mia vita». Sapia è finalmente riconciliata col cielo. La sua temeraria «follia» diventa liberante umiltà. Nella sua superbia, ella aveva osato rivolgere la sua «ardita faccia» a Dio in segno di sfida; Dio, nel suo amore preveniente, le mostra la sua «faccia» (Purg. III, 126) di misericordia. La violenza e l’odio di parte di cui prima era artefice, cedono ora il passo alla concordia che viene dal sentirsi parte di un’unica famiglia, la città di Dio in cui non c’è più posto per l’odio o l’invidia: «O frate mio, ciascuna è cittadina /d’una vera città»(Purg. XIII, vv. 94-95). E questa è solo l’ombra di quel «sicuro e gaudioso regno» che sarà il Paradiso.
Oggi si assiste al diffondersi di un’inedita cattiveria che sempre più facilmente si tramuta in pericoloso odio. Parole offensive e gesti disumani sembrano ormai all’ordine del giorno. Nelle tv si corre per accaparrarsi l’opinionista più sgarbato che attiri il maggior numero di ascoltatori e nei social grande è la tentazione di diventare leoni da tastiera. L’odio corrompe il tessuto quotidiano della società disgregando le sue basi. Così la giustizia si tramuta in vendetta, la dialettica in offesa e chi mi sta di fronte diventa il bersaglio da colpire, offuscando il volto da rispettare caro al pensiero di Levinas. Il mezzo più efficace per contrastare l’odio rimane la saggezza, la capacità di riconoscere il bene e collaborare alla sua diffusione.