»Ho la mano leggera come una piuma, non per niente mio nonno faceva il bersagliere»

 (Totò)

Quando ero bambina crescevo cullata dalle braccia e dalle cure dei miei nonni. Mio padre viveva e lavorava a Milano, mia madre era iperimpegnata con lo studio legale e quindi niente, ero con loro. I pilastri. Nello specifico, oggi penso al pilastro uomo, centonovanta centimetri di infinito, portatore degli occhi cerulei più belli della storia, tecnicamente menomato.

Menomato nel corpo intendo: una gamba in meno sostituita da una stampella e, dall’altro lato, da un bastone. Ai miei occhi non esisteva alcuna menomazione però; era quanto di più ovvio potesse esserci e al contrario, vi dirò di più, mi arrabbiavo quasi fino a scoppiare quando qualcuno gli suggeriva di mettere una protesi.

Lui normalmente, rifiutando, rispondeva: «No, grazie, la bambina ne rimarrebbe traumatizzata».

Mi portava in giro dovunque, era davvero altissimo. La cosa che amavamo fare di più era andare al mercato, con la lista della spesa dettata dalla nonna e che lui aveva riportato in perfetto “ordine di bancarella”, in modo da non dover fare troppo avanti e indietro: vorrei fosse chiaro, uscivamo a piedi e portava da solo le buste con la mano sinistra, la stessa con cui impugnava la stampella.

Per strada sentivo spessissimo adulti dire, con molta ansia, ai loro figli: «Non guardate, non fissate, occhi in avanti», quasi a voler proteggere qualcuno da qualcosa, da una deformità, un difetto. Ma altrettanto spesso io quei bambini li capivo, perché alla fine erano del mio mondo nano: non pensavano di avere assolutamente nulla da guardare con morbosità, non fino a che il genitore di turno non interveniva per ottenere l’effetto opposto. Loro, come me, non capivano, ma eseguivano, certi di una punizione sicura.

Era questo che mi mandava su tutte le furie: mio nonno poteva essere guardato, era bellissimo, protettivo, presente, attivo e non gli mancava assolutamente nulla. Gli altri bimbi avrebbero solo potuto invidiarmelo, fossero stati capaci di invidia. E poi, mi chiedevo, seppure la sua strana condizione di normalità avesse scatenato una qualche domanda, che problema ci sarebbe mai stato a rispondere? Dov’era l’inghippo? Del resto quella gamba si era persa in guerra, ma anche fosse andata a farsi un giro per altra ragione, posto che nessuno di noi pareva sentirne davvero la mancanza, perché agitarsi tanto?

I problemi sono stati chiari quando ho superato i tre, quattro anni: già a cinque, tutto questo rendeva chiara quella frattura netta che, nella testa della gente, doveva separare le regole dalle eccezioni. Qualsiasi fosse l’intenzione di fondo, quel modo di vietare di guardare un menomato onde evitare l’atto di cattiva educazione, non faceva che asfaltare purgatori, inferni e alimentare ombre. E mostri, tradotti spesso in quegli stessi bambini innocentemente curiosi, una volta cresciuti. E per questo guastati, quando le voci dei genitori si erano completamente fuse con le loro ed avevano instillato nel loro istinto la deformazione vera: «Non guardare, poverino, è diverso. È menomato». Occhi dritti: un atteggiamento oramai fisiologico ed incurabile. Gli sguardi scivolosi, sudati, viscidi.

Li riconosco ancora oggi, sapete? Quando sono con qualcuno che ha una qualche infermità, io continuo a non vederla e non per merito: sono cresciuta con mio nonno, ho avuto questa fortuna, era invalido nella gamba, aveva un corpo segnato ed interrotto. Ed era bellissimo così, l’ho vissuto così, l’ho sentito così, l’ho imparato così.

E così sono rimasta: senza imbarazzo, senza sentirmi più fortunata, senza sentirmi sollevata e senza provare nessuna vergogna. Perché sì, uso sempre il plurale quando si tratta di descrivere i danni che abbiamo arrecato a qualsiasi cosa: peccatrice come tutti.

Ma in questo senso no, non conservo peccato in me, perché mio nonno mi ha cresciuta in totale purezza per il solo fatto di essere in vita: non esiste differenza fra me e un qualsiasi essere umano con un pezzo che funziona a modo suo.

Io non rilevo deformità, non annoto, non faccio inventario e trovo spregevole il solo fatto che questo sia disumanamente possibile: registrare la differenza, questo sì che è invalidante. Questo sì che è mutilazione.

Quell’uomo così alto, un giorno, da handicappato qual era ricevette una lettera; aveva diritto ad un sussidio comunale mensile, poiché fra le altre cose, aveva un reddito basso. Quello stesso giorno mi portò con sé, ancora a piedi, ma non al mercato. Andammo agli uffici comunali, dove pretese che fosse creato un modulo che non esisteva e non sentì ragioni: non ci muovemmo da lì fino a che quella carta non fu pronta e lui non poté firmarla.

Era la rinuncia al sussidio: «Io non sono ricco, ma posso mangiare. Questi soldi devono servire a chi non ha il pane a tavola. Grazie».

Mai più, nella vita, ho visto occhi sgomenti alla stregua di quelli dell’impiegata.

Avevo cinque anni ed avevo capito: l’invalidità deforme esiste, ma non in un corpo a cui manca un pezzo, seppure giocato sulla scacchiera di una guerra, o che ha pezzi malfunzionanti per volere di una non meglio specificata sorte. Le infermità stanno altrove e sono le uniche che, da allora, io vedo nettissime e aborro.

Sono la nipote di tale Carmine Losito, un uomo che avrebbe dovuto diventare patrimonio Unesco. Potrei scrivere pagine, pagine e pagine su di lui, sulla sua vita, sui suoi racconti e su quello che è stato il suo riflesso addosso a me, ma non lo farò: qui ed ora, quello che voglio dire è solo che sono fiera di tutto ciò che mi ha insegnato a non vedere, perché mi ha permesso di non credere ai fantasmi.

Il diverso non esiste.

Parola di cinquenne.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.