La vita mistica di suor Chiara d’Amato di Seclì (1618-1693)
Tante cose sono accadute in quel secolo buio e luminoso che è il ‘600. Si affacciava l’età della luce, timidamente, aspettando il secolo dopo per brillare. Si rafforzava la borghesia, consolidando meglio e più ferocemente il suo giogo sulle altre classi. La controriforma si ritagliava la propria arcata superiore e Brunelleschi sorprendeva il mondo con la cupola dei prodigi a Firenze. In un clima di trasformazioni radicali e di transizione dal vecchio al nuovo, nel sud più a sud dei santi,[1]a Seclì, paese quasi invisibile, oggi frazione di Aradeo (in provincia di Lecce) nel 1618 nasceva Suor Chiara d’Amato: mistica e veggente, amante di Cristo. Nata da famiglia nobile, figlia quartogenita di Francesco d’Amato e Caterina d’Acugna. Il suo nome di battesimo è Isabella, e durante l’adolescenza vive un periodo con la zia Eleonora d’Amato, nel paese vicino di Tutino, sarà lì che imparerà a leggere e a scrivere[2]
Tornata dai genitori a Seclì, si dimostra una ragazza silenziosa, devota nell’esercizio dei suoi compiti e rispettosa nei confronti di tutti, compresa la servitù. Presto si ritrova ad affrontare una grave malattia e medita sulla morte, o meglio sullo strano rapporto fra la vita e la morte, e la continua presenza di tracce di gioia e di angoscia nella vita, binomio inossidabile e fondante della stessa esistenza terrena.
Lasciatasi alle spalle la grave malattia, inizia il suo intenso periodo di preghiera e vocazione. Si riserva molte ore di meditazione nella cappella del palazzo d’Amato ed inizia a privarsi di cibo e bevande, ad avere un portamento modesto, e a praticare alcune veglie notturne.[3]Si potrebbe definire un apprendistato mistico, sulle orme di Sant’Ignazio di Loyola o del De Imitatione Christi.
Presto le sue privazioni la condurranno alla prima apparizione mariana, in particolare la Regina degli Angeli, vista nell’atto di pregare, vestita di bianco e con addosso una collana d’oro.[4]Queste manifestazioni sedimentano nell’animo della giovane l’ardente desiderio di sposarsi con Cristo. Comunicherà la sua scelta alla famiglia, che all’inizio si opporrà e tenterà di dissuaderla. Passeranno un paio d’anni fino a quando, nel 1938, Isabella entra nel convento delle Clarisse di Nardò. Da quel momento si chiamerà Chiara, come la fondatrice dell’Ordine delle Clarisse, Santa Chiara d’Assisi.
I primi anni non si distinguono per evidenti ed importanti fatti mistici, sarà con l’ausilio e il servizio di don Giovanni Francesco Delfini, suo confessore e padre spirituale, che Chiara d’Amato trasformerà il compostin metallo nobile. Davanti al confessore dirà «Padre, sono venuta per farmi santa»[5].
Lo stesso Delfini annoterà le tracce di tale santità nei rapporti che documentano le confessioni e la vita monastica di suor Chiara. Nel 1660 annota il lungo digiuno della santa, «magna una sol volta il giorno, e privandosi di pesce il martedì, oltre il digiuno pane ed acqua il venerdì. Oltre la Quaresima perpetua digiuna pane ed acqua tre volte la settimana, lunedì, mercoledì e venerdì, ed il giovedì tagliarini senza olio»[6].Qualche anno prima, nel 1656, dopo una lunga estasi, il confessore Delfini le chiedeva se avrebbe accettato anche un digiuno per la sera stessa, e suor Chiara gli rispose <<farei l’obbedienza volentieri>>il confessore allora la pungolava dicendole <<e se la tenesse assai fame>>la riposta fu <<mi sazierebbe l’obbedienza>>.[7]Il gesuita Jean-Pierre de Cassaude, coevo di suor Chiara, nel saggio sull’abbandono alla provvidenza divina, definisce come elementi essenziali dell’abbandono a Dio, esattamente l’abnegazione, l’obbedienza e l’amore.[8]
Ma non solo il digiuno, anche gli abiti e il vestiario rispondono della regola di umiltà e moderazione delle Clarisse, il confessore Delfini annota di una sottana inviatale da un sacerdote, che viene rifiutata con l’invito di darla in dono, richiedendo per sé una sottana di panno più vile e fratesco.[9]Questa scena ricorda molto la svestizione francescana. Un continuo spogliamento da qualunque attaccamento per abbracciare la croce nella morsa più stretta e coinvolgete possibile.
Circa una decina di anni più tardi, nel 1671, un nuovo confessore, il teologo Donantonio Tollemeto, registra quelle che saranno le visioni di suor Chiara. In una di queste visioni alla mistica apparve Nostro Signore con due cuori, uno di carne ricoperto di sangue, e l’altro lucido e trasparente, come di cristallo. Il Signore avrebbe voluto sostituire il proprio cuore di cristallo a quello umano di carne e sangue. Sembrerebbe una sostituzione anatomica. La parte materica lascia il posto ad una materia più sottile, pura, imperitura. Qualche mese più tardi suor Chiara vide «l’Umanità di Cristo rosseggiante come rubino e le sue piaghe risplendenti a forma di rosa»[10].
Ancora una decina di anni più tardi, nel 1680, in una sorprendente levitazione, testimoniata da molte consorelle presenti alla scena, suor Chiara vide <<il trono della divina Maestà, il padre San Francesco, colle stimmate fresche, e la madre Santa Chiara ammantata di gloria>>[11]Il fenomeno della levitazione è stato riscontrato in molti passaggi della vita di suor Chiara. Ricorda il conterraneo san Giuseppe da Copertino, il quale nelle estasi e nelle invocazioni alla Madonna, levitava fin sopra il soffitto della chiesa.
Dopo ciascuna di queste visioni la mistica cadeva in deliquio e al completo risveglio consegnava la testimonianza di un elevato momento di beatitudine e gioia, inspiegabile nell’ordine delle sensazioni terrene.
Nelle sue estasi, suor Chiara supplicava il Signore di non offrirgli ancora ulteriori piaceri mistici. Ripeteva «o fuoco, che abbruggia e non consuma, ma ricrea. Non più, Signore, non tanto amore, non posso più»[12].
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[1]C. Bene, Opere, Milano: Bompiani, 1995.
[2]C. Aldo de Donno, Fuoco d’amore che brucia e non consuma, Libri ICJS, Lecce, 2010, pp. 41-45.
[3]Ibidem,p. 51.
[4]Ibidem, pp. 53, 54.
[5]Ibidem,p. 65.
[6]C. Aldo de Donno, Il libro della mistica esperienziale, Libri ICJS, Lecce, 2010, p. 129.
[7]C. Aldo de Donno, Fuoco d’amore che brucia e non consuma, Libri ICJS, Lecce, 2010, p. 83.
[8]J.-P. de Cassaude, L’abbandono alla provvidenza divina, Adelphi, Milano, 1989, p. 83.
[9]Cfr. C. Aldo de Donno, Il libro della mistica esperienziale, Libri ICJS, Lecce, 2010, pp. 41-45.
[10]C. Aldo de Donno, Fuoco d’amore che brucia e non consuma, Libri ICJS, Lecce, 2010, p. 77.
[11]Ibidem, p 78.
[12]C. Aldo de Donno, Il libro della mistica esperienziale, Libri ICJS, Lecce, 2010, p. 151.