«Ogni cosa che vogliamo è contraddittoria con le condizioni o con le conseguenze relative; ogni affermazione che noi pronunciamo implica l’affermazione contraria; tutti i nostri sentimenti sono confusi con i loro contrari. siccome siamo creature siamo in contraddizione; perché siamo dio e, al tempo stesso, infinitamente altro da Dio»

(Simone Weil)

Sofia chiese a Giuditta:

  • Hai mai sentito dire che i silenzi parlano?

Continuò:

  • Partendo da Simon, per approdare a Garfunkel, per esempio, si deve passare dal suono del silenzio che, guarda caso, si apre con un sonoro: “Hello darkness, my old friend”

(Lo avete letto cantando, confessate, intenditori! E già qui ci sta una riflessione: non ne avranno abbastanza di tempo eterno, per stare sotto terra, nella darkness? Mistero – n.d.r.)

Proseguì:

  • Ed hai mai letto l’incipit: “urlo del silenzio”? Quella specie di ossimoro scenografico che, di fatto, parla di urlo e non di suono, ovvero dell’esasperazione di qualcosa di bello?

(Nuova riflessione: urlo è parente di troppo. E il troppo stroppia. Citazione sempre valida: la nonna).

Dove stesse andando a parare Sofia, Giuditta non poté comprenderlo bene, poiché mentre una scioglieva i nodi del suo gomitolo, l’altra si era già persa nell’universo delle etimologie, croce e delizia di ogni conversazione che poteva contare un numero di sinapsi attive, pari almeno a due.

Dunque, silenzio viene dal latino silentium, derivato di silēre, ovvero “tacere”, ma anche “non fare rumore”.

Stop, capolinea! Rete neuronica fermati! Rispettiamo la volontà originaria delle parole, specie quando quelle che diciamo diventano azioni, esattamente come il silenzio, il quale passa per atto passivo e, invece… passivo un grandissimo piffero sotto sale.

Certo, è un dettaglio visibile solo per chi non ha la coscienza pulita. Mica come quelli che ce l’hanno linda e pinta: mai usata.

Orbene, non fare rumore. Ora mettetele d’accordo, però: anche il silenzio può diventare frastuono.

Giuditta allora fermò la conversazione:

  • Sòfi un attimo, devo prendere un libro.

(Non era ancora passata all’insofferenza del Sofì, con l’accento che cambia tutto).

R.B. BELTI, Il silenzio voce dell’anima, Edizioni Rosminiane “Sodalitas”, Stresa 2004.

  • Santo cielo, Giudì! Per questo si deve fare attenzione a parlare con te; per ogni santa cosa che ti si dice, tiri fuori un libro! L’ultima volta che ho nominato per sbaglio la lavatrice, mangiatrice abusiva di calzini spaiati, mi hai tirato fuori Cecelia Ahern. Datemi l’emoticon che si sbatte la mano sulla fronte.
  • Santo cielo, Sofì! (eccolo l’accento), non è che per capirci dobbiamo tornare ai geroglifici… l’emoticon, lascia perdere eh, sbattiti la mano sulla fronte e basta!

Il volto di Sofia era a metà fra lo sconfitto ed il rassegnato; Giuditta, invece, fece spallucce, conscia com’era di non poter vincere gli istinti primordiali.

Naturalmente, nel libro di Giuditta c’era un pedissequo ed apprezzabile elenco di pregi del silenzio: silenzio come fortezza, silenzio come rinuncia, silenzio come pazienza, silenzio come amore, silenzio come discrezione, silenzio come intelligenza, silenzio come delicatezza di coscienza, silenzio come ascolto, silenzio come comunione, silenzio come fede, silenzio come adorazione… ed eccolo, lui, c’era: il silenzio per parlare.

  • Neh Sofia! (Nome per intero, tagliente soddisfazione) Te l’ho trovato! Sta qua! A questo punto, dov’è che volevi arrivare?
  • A te, a te volevo arrivare.

Bersaglio centrato. Giuditta aveva capito!

Ciascuno di noi mal tollera negli altri tutto ciò che fa da specchio a quanto non ci piace, eppure ci appartiene. Lì serve l’onestà di ammetterlo, davanti all’impossibilità di correggersi senza interventi esterni… che è sempre vero: nessuno si salva da solo.

E serve anche la forza suprema di non far rimbalzare sul prossimo tutto quello che il prossimo, da buon riflettente, ci rimanda. Un po’ come dire che se non ci piace l’eco che la vita ci restituisce, probabilmente andrebbe cambiato il messaggio che inviamo, non vi pare?

Orbene, ve la presento, è Giuditta: la regina del gineceo del silenzio, ove impera il fragore del mutismo cosmico! Non aprite quella porta! O meglio, se potete, fate in modo di non spingerla a farlo.

Ecco, quindi, che messa davanti a sé stessa e a tutto quanto di sé stessa non apprezzava, Giuditta iniziò a pensare di dover fare ammenda: perché non avrebbe dovuto, se Sofia la stava solleticando in tal senso?

E no, non voleva certo fare la fine di Teseo, l’uomo che si lasciò aiutare da Arianna per uscire dal labirinto di Cnosso e poi la piantò sull’isola di Nasso, in asso.

Solo che, scortata in quel presunto punto di non ritorno, Giuditta, invece, aveva scelto esattamente di tornare dove l’amica aveva iniziato, perché non è che tutto questo valesse solo per lei; l’interlocutrice di certo non scherzava in quanto ad uso ed abuso di sovrumani silenzi. Altro che profondissima quiete.

Quindi provò arditamente ad emulare lo stile di Marco evangelista, che possedeva la superba qualità di iniziare i discorsi in un punto e, dopo un giro a forma di cerchio perfetto, chiuderli nell’esatto punto di partenza.

Semplicemente, iniziò a cantare con un sistema del tutto bizzarro: saltava versi e salvava rime, lasciando così intatto il senso a cui stava puntando, senza sprecare parole (maestria!):

Hello darkness, my old friend

i’ve come to talk whit you again (…)

and the vision

that what planted in my brain

still remains

within the sound of silence (…)

You don’t know. Silence like a cancer grows (…)

Si fermò ed aggiunse, quasi distrattamente:

  • Comunque, preferisco il crescendo della versione registrata dai Disturbed che, peraltro, scandiscono alla perfezione le parole, oltre ad essersi scelti un nome che è tutto un programma. Prova a guardare il video. Immagino tu voglia dirmi che io ottengo lo stesso risultato, quando ferisco con il silenzio che patisco e di cui perisco.

Sofia pensò che conosceva bene quella versione e quel video: l’associazione di Giuditta era terribilmente vera. La contraddizione fra qualcosa di splendido ed inquietante. Non aggiunse più nulla.

Morale della favola: quando il silenzio diventa rumore, si trasforma in qualcosa che forse non è, ma nessuno lo saprà mai, finché nessuno interverrà.

Come dire:

  • Prima regola della scienza: se non sei interessato, non meriti di sapere. (Dumbo, Tim Burton, 2019)

Fine.

Giuditta, in piena contraddizione con sé stessa e nonostante il profondo amore che provava per la battuta cinematografica di un film che le aveva fatto pressoché schifo, con certi epiloghi senza epilogo, non era evidentemente d’accordo.

Per vincere contro l’attitudine a fare incancrenire l’oblio, a volte serve trovare un equilibrio fra le parole che sono chiavi ed i silenzi che sono serrature. Se non si fa in modo che combacino perfettamente, qualsiasi porta dell’emisfero resta chiusa. Qualcuno, in quel caso, il fabbro dovrà pur farlo.


FontePhoto credits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.