«Così vid’io la settima zavorra 
mutare e trasmutare; e qui mi scusi 
la novità se fior la penna abborra»

(Inferno XXV, vv.142-144)

Come già anticipato, anche il canto venticinquesimo dell’Inferno indugia nella descrizione della punizione dei ladri. Nei versi di apertura, protagonista è ancora Vanni Fucci che si rende responsabile di un gesto blasfemo e di una bestemmia rivolti a Dio, tanto che Dante erompe in una dura invettiva contro Pistoia, città natale del dannato più superbo che gli sia fin qui capitato di incontrare. Subito dopo appare il centauro Caco, ucciso dalla clava di Ercole e qui sormontato da una quantità impressionante di serpenti nonché da un drago sputafuoco mentre si lancia all’inseguimento del Fucci.

Le sorprese non sono finite. È la volta dell’incontro con cinque ladri fiorentini: Cianfa Donati, Agnello Brunelleschi, Buoso Donati, Puccio Sciancato e Francesco dei Cavalcanti. Di essi, solo Puccio Sciancato non subisce indescrivibili e mostruose mutazioni, mentre gli altri quattro passano dallo stato di uomo a quello di serpente e viceversa, tanto che Dante non ha paura di confrontarsi con le metamorfosi narrate da Ovidio e Lucano per affermare che ben più incredibili sono quelle toccate in sorte alla sua penna.

Ed è proprio questo il punto su cui vorrei per un breve momento indugiare. Una libera parafrasi dei versi 142-144 potrebbe suonare così: io ho visto i ladri della VII Bolgia mutarsi e trasformarsi; e sarà la stessa novità di ciò ho visto a scusare quel che la mia penna riesce solo ad abbozzare.

Il tema dell’ineffabilità, della incapacità di raccontarci tutto quello che ha visto, sarà dominante in tutta la cantica del Paradiso e in particolare nel canto trentatreesimo, l’ultimo della Divina Commedia, quello deputato a rievocare la visione di Dio, Uno e Trino. Non ci è difficile comprendere la fatica di Dante nel narrare quel che “occhio non vide né orecchio mai udì” (1Cor 2,9), ma qui il poeta confessa una seconda incapacità: quella di rappresentare il trionfo del male. Peraltro, non mi sembra un caso che tale sua confessione arrivi al termine di una delle più lunghe descrizioni della pena di un dannato: ben oltre 100 versi, dal verso 34 al verso 141.

Proprio così: è come se la nostra umana fragilità fosse egualmente incapace di accogliere il mistero del bello e il mistero della notte. La luce del primo acceca. L’oscurità del secondo atterrisce. E disorienta.

Possiamo ordinariamente vivere di luce e di buio, un po’ di luce e un po’ di buio. Ci sentiamo, invece, del tutto incapaci di accogliere il male fino alla fine e il sommo bene. Il primo limite ci dà speranza: anche nell’uomo più malvagio può infiltrarsi uno spiraglio di luce. Il secondo, ci ricorda: il Bene, lo si può solo accogliere, non è al termine dei nostri meriti.

Isabel Allende: «Adesso, che ho superato già tanti dolori e posso leggere il mio destino come una mappa piena di errori, quando non sento nessuna compassione di me stesso e posso passare in rassegna la mia esistenza senza sentimentalismi, perché ho trovato una relativa pace, lamento soltanto la perdita dell’innocenza. Mi manca l’idealismo della gioventù, del tempo in cui esisteva ancora per me una chiara linea divisoria tra il bene e il male e credevo che fosse possibile agire sempre in accordo con princìpi inamovibili».

E Simone Weil: «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che ci si aspetta invincibilmente che gli faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano».


FontePixabay.com liberamente reinterpretata da Eich
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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...