«L’alba vinceva l’ora mattutina 
che fuggia innanzi, sì che di lontano 
conobbi il tremolar de la marina»

(Purgatorio, I, vv.115-117)

Finalmente aria pura, un cielo azzurro, la possibilità di sperare in un riscatto: è l’alba di Pasqua e siamo fuori dell’inferno, sulla spiaggia della montagna del purgatorio. Dante ammira la luce di quattro stelle sconosciute all’emisfero boreale – i più le interpretano come allegoria delle quattro virtù cardinali: fortezza, prudenza, temperanza e giustizia – quando lui e Virgilio sono sorpresi da un «veglio solo» il cui volto è reso brillante proprio dal riverbero sfolgorante delle quattro stelle.

È Catone uticense, morto suicida per non piegarsi al potere dispotico di Cesare. Privarsi della vita era considerato il più grave dei peccati e, dunque, Catone dovrebbe essere all’inferno, con Pier della Vigna; invece Dante – con la sua solita eterodossa ortodossia – lo rende custode del purgatorio e aggiunge che, prima della discesa agli inferi di Cristo, comunque Catone non era dannato, ma ospite del Limbo, insieme ai grandi dell’antichità e ai patriarchi biblici.

Non è difficile seguire il ragionamento di padre Dante: chi in nome di un ideale è disposto a rinunciare alla sua stessa vita, non può essere spedito tra i dannati; non importa come, non importa quando, quel che conta è che la misericordia divina arriva laddove i ragionamenti umani si arrestano, cosa che tra poco, nel canto terzo del Purgatorio, scopriremo ancor più “scandalosamente” nella vicenda di Manfredi.

Peraltro, Catone apostrofa severamente i due viandanti chiedendo loro se siano state rotte le leggi divine, tanto che sono riusciti a uscire dall’inferno per arrivare fin lì. Dante è confuso e taciturno. È Virgilio che, fattolo inginocchiare, lo soccorre con il celebre «libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (vv.71-72); quindi, spiega il motivo del loro andare, precisa che nessuno dei due, uno vivente, l’altro proveniente dal Limbo, è in realtà un dannato e prova, con una captatio benevelontiae in nome di Marzia, la diletta moglie di Catone, a imbonire il severo custode.

Questi ribatte che, «se donna del ciel ti muove e regge» (v.91), non serve captatio e invita a procedere senza indugio, ma non prima di aver adempiuto a un doppio rituale purificatore: il volto di Dante, sporco della fuliggine infernale, dovrà essere nettato e i suoi fianchi dovranno essere cinti di un giunco pieghevole, non a caso definito «umile pianta» (v.135) che, una volta strappata, ben diversamente da quando era accaduto nella selva dei suicidi, subito ricresce spontaneamente.

E ricomincia il cammino. Questa volta in ascesa. Ma pur sempre per grazia. Nel «tremolar della marina», espressione che solo chi ha visto l’alba sorgere sul mare può gustare in tutta la sua luminosa speranza.

Rainer Maria Rilke: «Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare».

Richard Feynman: «In piedi davanti al mare, meravigliato della propria meraviglia: io, un universo d’atomi, un atomo nell’universo».

Arthur Rimbaud: «L’eternità è il mare mischiato col sole».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...