Lo considerano la nuova frontiera della pubblicità, eppure non tutti ne hanno ancora colto le potenzialità

Avete presente quei fastidiosi popup o banner che si aprono in automatico quando state visitando un sito? Quanti secondi gli dedicate? Se la risposta è “pochissimi, anzi zero”, allora già sapete perché il native advertising è la nuova frontiera della comunicazione pubblicitaria.

Esempi del native advertising sono i post promossi su Facebook o su Twitter. Si tratta infatti di una pubblicità che corre sul web, ma in modo “nativo”, cioè assumendo l’oggetto e la forma del sito che la ospita, mantenendone sia il formato tecnico che la coerenza col contenuto. Il vantaggio per l’investitore è evidente: una comunicazione “nativa” giunge direttamente agli utenti del sito, gode della possibilità di accenderne l’interesse, beneficia del posizionamento del sito. L’aspetto vincente è, peraltro, dato dal fatto che il native advertising non si pone in concorrenza con la comunicazione del sito ospitante, non crea distrazione o interferenza, non spezza l’attività degli utenti, anzi è in grado di fornire loro proprio le informazioni che stavano cercando.

Ovviamente, questo non significa che il native advertising è una forma di pubblicità occulta. Al contrario, l’editore è tenuto a indicare che trattasi comunque di contenuto sponsorizzato e deve esplicitamente dichiarare l’identità dell’inserzionista. Dunque, il lettore sa che sta leggendo un contenuto che contiene informazioni pubblicitarie, solo che esse sono poste come forma di approfondimento e analisi di un argomento che lo interessa e non già come interruzione di una ricerca che stava precedentemente svolgendo.

Un esempio. Ho voglia di sperimentare una ricetta tradizionale. È probabile che avvierò una ricerca sul web per reperire delle informazioni. Potrei a quel punto finire su un sito profilato per quanto ha a che fare con il mondo della cucina e dei sapori tradizionali. Apro il sito e trovo la ricetta che cercavo. Il sito mi avverte che quell’articolo è sponsorizzato da un’azienda che vende alimenti biologici. Che farò? Continuerò a leggere l’articolo che mi interessa e memorizzerò, anche solo inconsciamente, il nome di quell’azienda. Il circuito è così compiuto: l’inserzionista ha ottenuto lo scopo di far conoscere il proprio marchio, l’editore ha beneficiato in termini economici dell’inserzione, l’utente ha ottenuto l’informazione che cercava, più una aggiuntiva – appunto, il marchio dell’inserzionista – ma senza che questo abbia interferito con la sua attività. Un circolo virtuoso, dal punto di vista della comunicazione, ben più efficace della pubblicità online di prima generazione e innovativo anche rispetto al pubbliredazionale che tende invece a nascondere messaggi pubblicitari con articoli che si limitano a presentare prodotti e servizi, ma non rivelano la loro reale natura pubblicitaria.

Detto così, rimane da chiedersi perché non tutti gli investitori siano ancora attratti dal native advertising. La risposta potrebbe essere banale: il native advertising è diffusissimo nei Paesi da sempre attenti a captare le novità del mercato, vedi Stati Uniti (il New York Times sperimenta con successo il native advertising già dal gennaio 2013), mentre stenta – ma ancora per poco – ad arrivare nei mercati meno innovativi.