Mentre Putin annunciava una tregua per il giorno di Natale, in Kosovo si sparava contro i serbi che festeggiavano la nascita di Gesù.

Il Natale, si sa, è la festa più sentita del mondo cristiano. Le Chiese ortodosse celebrano la solennità della nascita di Gesù in una data diversa da quella degli altri cristiani, il 7 gennaio, poiché seguono il calendario giuliano, quello che fu promulgato da Giulio Cesare. Alcune Chiese, come quella rumena e greca, hanno deciso di conformarsi al Natale cattolico, celebrandolo il 25 dicembre. Fedeli ad una più rigida ortodossia, i russi e i serbi continuano a mantenere la ricorrenza il giorno 7 gennaio. Fino all’anno scorso nessuno in Ucraina avrebbe messo in dubbio la celebrazione della nascita di Gesù nella stessa data delle suddette chiese, ma a partire dal 2022 molti ucraini hanno deciso di celebrare il Natale il 25 dicembre, rimarcando coi fatti una sorta di indipendenza, anche religiosa, sui russi.

Pochi giorni prima del Natale ortodosso, Putin aveva annunciato una tregua, che può ricordare quelle di Natale della Grande Guerra durante le quali i soldati osarono scambiarsi gli auguri e i regali nella terra di nessuno, in quello spazio sospeso tra le trincee degli eserciti. Lontani dalla prospettiva di uno scambio di presenti e di saluti, i cristiani di fede ortodossa avrebbero perlomeno potuto partecipare alle celebrazioni liturgiche. Anche Kirill, che finora ha benedetto il conflitto e che si é mostrato alquanto restio ad un cessate il fuoco, aveva dichiarato: “Faccio appello a tutte le parti coinvolte nel conflitto affinché cessino il fuoco dalle 12 del 6 gennaio alle 24 del 7, in modo che gli ortodossi possano partecipare alle funzioni della vigilia di Natale e del giorno della Natività di Cristo”(fonte RAINEWS). La decisione del presidente russo è arrivata dopo un colloquio telefonico con Recep Tayyip Erdogan, che da parte sua proponeva una tregua più lunga per favorire negoziati. Putin ha optato per una soluzione più breve, le 36 ore natalizie.

Zelensky l’aveva considerata una “trappola” e di tregua si sarebbe potuto parlare solo se l’esercito russo si fosse  ritirato, per Kiev insomma il cessate il fuoco sarebbe un modo per organizzare una nuova offensiva a febbraio, a un anno dall’inizio del conflitto. E così l’esercito ucraino ha violato il cessate il fuoco, in nome dell’ipocrisia russa.

Altro fronte caldo è il Kosovo.

Il Natale è celebrato dalla minoranza serba che come tradizione vive la vigilia natalizia con il rito del Badnjak, il ramoscello di quercia che poi viene fatto ardere nel falò che si prepara a ridosso delle chiese e che ricorda il fuoco che i pastori accesero nella Santa Notte per scaldarsi a ridosso della grotta di Gesù Bambino.

In questi mesi le tensioni tra Kosovo e Serbia hanno conosciuto una recrudescenza, soprattutto all’indomani della scelta di Pristina di reimmatricolare le automobili con targa serba. Nelle ultime settimane i serbi avevano innalzato barricate protestando per l’arresto ritenuto ingiustificato di tre serbi. Tali frizioni, avevano portato il presidente Vučić ad allertare l’esercito, a ridosso della fine dell’anno.

La sera della vigilia di Natale, il 6 gennaio, un albanese ha aperto il fuoco da un’auto in corsa ferendo, in maniera non grave, due serbi, uno dei quali era un undicenne. I due ragazzi trasportavano i ramoscelli di quercia da utilizzare per la ricorrenza. L’episodio, che per le autorità serbe equivarrebbe a un tentato omicidio, potrebbe acuire nuovamente le tensioni tra i due paesi balcanici che con fatica hanno operato una de-escalation.

La festa non ha lasciato sotto l’albero buone notizie, soprattutto ad Est. Se in Occidente il Natale è preda oramai del consumismo più sfrenato, che anestetizza il nostro ritmo quotidiano e le nostre noie, in Oriente la festività è l’occasione buona per ribadire una certa autonomia e identità che apre allo scontro e alla rivendicazione, o se volete al tradimento, di quelle radici comuni. È quanto è accaduto in Ucraina dove il Natale ha segnato la volontà di Kiev di dichiarare, se mai ce ne fosse bisogno, un’ulteriore indipendenza da Mosca e dalla sua Chiesa.

Radici, dunque, sono quelle che in Kosovo invece vengono riaffermate per rimarcare invece la presenza della minoranza che sbraita e fa spallate con la maggioranza albanese che fa fatica a intraprendere un percorso di convivenza, che alle grandi potenze, aldilà agli sforzi di facciata, non sta proprio a cuore.