“Muccia è leggero, anzi, leggermente tirato. Racimola risparmi per un pezzo di focaccia, per un bacino da una prostituta. La sua vita grama non suscita bullismo o raccapriccio, ma tenerezza”
Quello tra Franco Ferrante e Michele Bia è un sodalizio artistico di vecchia data e nuova prospettiva teatrale. Insignita di illustri premi e fulgenti recensioni, la loro abilità recitativa trascende il confine del surrealismo per collocarsi in un’oggettività ironica, sarcasmo e passione si fondono nella sceneggiatura del quotidiano. Ospite di Fucina Domestica, Ferrante ci ha rilasciato un’intervista per raccontarci del suo spettacolo itinerante “Muccia”.
Ciao Franco. Grazie al corto “Meridionali senza filtro” hai vinto un David di Donatello. Qual è stata la principale differenza lavorativa che hai riscontrato fra l’essere produttore di questo progetto e il recitarvi?
L’unica, grande difficoltà è aver girato in 35 mm, la possibilità di errore si riduce, non è come nel cinema, qui la pellicola non ti consente ulteriori ciak, è una foto che immortala il momento, una recitazione da “Buona la prima!”
Veniamo a “Muccia”. Personalmente, fra le atmosfere grottesche dello spettacolo, ho scovato tratti naturalistici del Verismo di Verga. Anche tu vuoi dare allo spettatore un giudizio anticipato del personaggio?
Mai. Sarebbe lo sbaglio più grande per un attore. Quando Michele Bia, regista anche di “Meridionali senza filtro”, ha scritto la sceneggiatura di “Muccia”, il suo intento era rendere partecipe lo spettatore delle disavventure di un giovanotto senza età che vive ancora con sua madre e si arrangia nel precariato. Muccia svolge tre lavoretti: lava i portoni dei condomini, porta le corone dei fiori ai morti e sistema le sedie per i concerti in piazza. Muccia è un bonaccione, un personaggio che amo definire “girato”, caricato senza scadere nella parodia.
Un po’ come lo zio nel film “Amarcord” di Fellini…
Esattamente. Muccia è leggero, anzi, leggermente tirato. Muccia racimola risparmi per un pezzo di focaccia, per un bacino da una prostituta. La sua vita grama non suscita bullismo o raccapriccio, ma tenerezza. La madre lo accompagna in giro per santuari, il suo paesino lo coccola, senza dileggiarlo o deriderlo.
Ecco, nelle oltre 250 repliche che hai portato per tutta Italia, hai notato un cambiamento della percezione che il Nord ha di “Muccia”?
In parte. Certe dinamiche da Roma in su sono quasi nulle. “Lo scemo del villaggio” raccatta consensi solo al Sud. Credo che in Muccia non esistano confini nostalgici ma tragici. Oggi la comicità è diventata cabarettistica ma ha perso la tragedia, il dolore fisico che ti spinge sul palco.
Chi è per te il più grande tragicomico moderno?
Senza dubbio Antonio Albanese. Sa mescolare dialetti e calamità, Albanese ha la tragedia dentro, in lui è evidente la presenza della commedia dell’arte, come a dire: devo far ridere per raffazzonare briciole di pane. “Muccia” ha una chiosa molto simile ai tragici epiloghi di Aristofane. Il ragazzotto Muccia deve crescere, sua madre lo caccia di casa, ed è in quel momento che Muccia si stupisce e stupisce il pubblico…
Finale a sorpresa quindi?
Non posso aggiungere altro. Lo spettacolo itinerante avrà diverse repliche: vi aspetto. Ne vedrete delle belle!