“Ho fatto di me questa strana cosa, un uomo di lettere, un uomo il cui destino è cambiare le sue emozioni in parole, scriverle, forse pensare non tanto al loro senso quanto alla loro cadenza, alla loro musica, alla loro suggestione, e creare sogni”
(Jorge Luis Borges)
Per tutti ci sono arti che vanno imparate, doti che vanno affinate, talenti che vanno nutriti; e poi ci sono quelli di noi, i più fortunati, che solitamente si alzano una mattina e si ritrovano a fare tutto quello che sapevano di poter fare, ma mai avevano fatto.
Semplicemente perché non ci avevano mai messo il pensiero.
Quella è l’arte dei semplici: la possiedono e fondamentalmente si infischiano di pubblicizzarla, fino a che non decidono che il momento sia giunto.
Ed anche allora, non si tratta di fare mostra, ma di mettere in pratica qualcosa che a loro piace. Difficile da comprendere e da accettare. Ma così è. Senza fronzoli. Così è e basta.
Lui era uomo fra tanti, si chiamava Morgan ed aveva un’eleganza fuori dal comune.
Camminava dondolando, che a guardarlo si ammorbidivano e risvegliavano i sensi; i capelli sempre a posto, a volte sotto un cappello, a seconda di come girava il mondo; l’espressione attentamente indifferente che solo chi si accorge di tutto, ma può non vedere niente, possiede; corpulento, ma non evidente, attento ai dettagli infinitesimali di cui solo lui si avvedeva, anche quando si vestiva. Lo riteneva un segno di rispetto verso il prossimo e, che si notasse o meno, a lui serviva per potersi guardare allo specchio. Aveva la tipica classe della totale assenza di firme, che fosse in pigiama o curasse i polsini della sua camicia.
E la posizione che assumeva ogni volta che era seduto? Sembrava stare sempre comodissimo; avrebbe dato quell’impressione anche si fosse adagiato su un rovo di spine. Era così, ermetico, ma non scostante. Solo semplice: non ci metteva intenzione.
Si ritrovava a dover fare cose impensabili, che gli costavano la fatica epica che sarebbe costata a chiunque; eppure fuori sembrava il clone morale di Wolverine, colui che guarisce sempre. La maestria di chi, anche quando fallisce, lo fa come avesse bevuto un bicchiere di acqua, per giunta liscia.
Eppure falliva, spessissimo falliva, si distraeva, perdeva pezzi come si perdono chiavi e accendini, non aveva nulla che potesse confondersi con l’onnipotenza.
La dicotomia fra Wolverine e l’uomo, però, non esisteva perché Morgan nascondesse qualcosa di sé: disarmante lo era, proprio perché gli veniva naturale.
Poteva essere morto dentro, ma quello che riusciva a fare sembrava sempre una passeggiata, a lui per primo, dopo averla portata a termine, tant’è. faticava moltissimo a capire come mai, alcune sere, si sentisse come gli fosse passato addosso un tram, eppure, riuscisse francamente a dirsi: “Beh, però alla fine è stato più facile di quanto credessi!”. E con un solo pensiero si addormentava, tramortito: “Un’altra è fatta”. Non una sola nota di merito o demerito in più.
Fu in questo modo, il suo modo, che si ritrovò ad affinare la sua arte. Non che la cosa gli cambiasse la vita o le giornate, ma aveva scoperto che, banalmente, gli piaceva.
Iniziò a scrivere e disse ‘basta’, però, alla saggistica ed alle cose ‘da grandi’.
Certo, era ben capace di far fluire le parole come acqua di ruscello che, ingrossato dagli altri corsi, diventa un fiume che scorre nel suo alveo; e ne era anche ben conscio. Solo, fino ad allora, non ci aveva messo troppo il pensiero; da un po’ lo faceva dappertutto e nei momenti più impensati, infatti avrebbe potuto scrivere anche sugli scontrini di un supermercato di second’ordine, se gli fosse arrivato il guizzo e non avesse avuto altro supporto per fermarlo.
Orbene, la cosa più affascinante di Morgan, del suo personalissimo essere e della sua scrittura, era una: non un rigo, che fosse uno, era davvero fine a sé stesso. Una lettura poco attenta avrebbe tranquillamente potuto far credere il contrario, pur restando fluida e piacevole.
Ma Morgan aveva il trucco: era ermetico, l’ho detto, nondimeno amava il mondo e non era un misantropo. Forse era più selettivo che altro, e la selezione non sfuggiva nemmeno sulla carta.
Ecco, quindi, che l’arte imbarazzante ed invidiabile era in un altro naturale sistema.
Lui lasciava messaggi, storie, pensieri immobili sul foglio, ma a guardar bene erano come blu e sottolineati, in mezzo a parole nere. In buona sostanza, ogni rigo era come un link che rimandava ad altri collegamenti, tutti perfettamente connessi fra loro. Ma ‘invisibili agli occhi’. A novantanove paia di occhi su cento. Magari il restante era spesso, addirittura, solo il suo!
Letto nei suoi strati, Morgan, che allora diventava faticoso perché necessitava di un certo impegno, non perdeva mai la logica. La verità è che Morgan non avrebbe mai dovuto essere letto solo così, come giaceva.
Ecco, dunque, in qualità di lettrice assetata ed incallita, il mio esercizio preferito, se davvero fosse esistita una penna capace di un tale fascino, se fosse già nato un vero Morgan, o una Fatamorgana, sarebbe stato (lentamente ed attentamente) scoprirla. Ritrovare il piacere del dubbio, il gusto della scoperta, la voglia di non fermarsi a quel che sembra, la passione per quel che è. O che un Morgan vorrebbe fosse. Incontrarlo, nel nucleo, per incontrare me stessa.
Riprovare l’emozione di quando ho imparato a leggere la Bibbia, per esempio. Tanto per intenderci, lo Shemà Israel. Cos’è? No. Com’è? Leggerlo e pensare che vada recitato a voce alta, perché così facendo ci si ascolta… un esempio fra mille, oltre la lettera. Il perché di uno scritto. Il come vada letto.
Così, con arsura, percorro il Morgan che è in ognuno di voi e vi domando: qualcuno l’ha mai visto?
Se sì, se lo aveste incontrato o lo incontraste, vi prego allora di fargli sapere che c’è chi lo cerca o ne attende la nascita: a volte, con la scrittura, è un fatto di sete.
A volte, peraltro, quando si beve in fretta e il liquido va di traverso, serve una pacca sulla spalla, per non soffocare.
Morgan? Morgan era il re delle modalità anti asfissia.