Mirella Caldarone vive e lavora ad Andria. Ama la fotografia. Campo privilegiato del suo lavoro fotografico è l’indagine sociale.
Attraverso la rappresentazione dei gesti, degli appuntamenti sacri e popolari e del linguaggio della vita quotidiana, Mirella focalizza gli aspetti più significativi dell’identità di una comunità che si muove nel suo paesaggio urbano e territoriale, dando forma al legame della figura umana con il suo ambiente. Nella sua espressione fotografica predilige la regalità del bianconero. Numerose le mostre, accompagnate da altrettante pubblicazioni. L’amore per questo linguaggio ben si inserisce nell’attenzione che, in senso più generale, dedica ai linguaggi espressivi, in particolare alla scrittura. La sua cultura è ispirata ai valori dell’ambiente, della natura, dell’istruzione e delle attività creative in generale.
Una donna in continua evoluzione dalla chioma color porpora. Mirella, come nasce la tua passione per un colore così vivo, come il rosso, che forse oggi ti identifica?
Un risultato percepibile è sempre la somma di addendi stratificati nel tempo della propria esistenza. Ciò che appare come assunzione di uno status estetico è un viraggio legato ad un processo di crescita che dura da decenni e che include, quale contrasto all’incanutimento, la capacità tintòria e curativa di una pianta tropicale conosciuta con il nome di Hennè, in uso fin dagli antichi Egizi. Un processo, dunque, che mi restituisce al presente in una veste per niente nuova: le cromìe attuali parlano della mia storia, così come suggeriscono la tensione verso una evoluzione progressiva.
La scoperta, stretta alleata della curiosità. Quanto il desiderio di scoprire ti ha portata a intraprendere, durante il tuo vissuto, viaggi non convenzionali?
Non ho mai provato interesse per le soluzioni turistiche, spesso attente a creare un mondo che a quello reale somiglia soltanto. Il turista continua a vivere in una bolla di protezione che rotola insieme ai suoi bagagli, con l’assicurazione che nulla potrà turbare il suo delicato equilibrio. Un viaggiatore, invece, ha da misurarsi con le risorse del posto visitato, fatto di persone del luogo con cui parlare, fatto di mezzi di trasporto locali da frequentare, di interessi da scoprire. Preferisco avere il tempo di intessere rapporti con la gente che vi abita, fermarmi con loro, scambiare parole, sorrisi, vibrazioni, mentre sembrano in attesa di un tempo in sospensione: quello che è stato, quello che verrà. Viaggiare da soli, poi, rende possibile vivere a pieno questi flash relazionali. I movimenti sono naturali e seguono la calamita motivazionale autentica verso il mondo che ci circonda. In questi scambi non c’è solitudine: ci si ritrova, ogni volta, in un nuovo appuntamento con se stessi e con gli altri. La parte migliore di un viaggio è la crescita, quella che deriva dal superamento delle difficoltà; quella che fa venire fuori la parte migliore di te, che ti rivolgi al mondo in cerca di sostegni. Crescita è anche maggiore fiducia in se stessi scoprendo che può funzionare una pianificazione, e che di quella pianificazione, piano piano, quotidianamente, se ne sbrogliano i nodi, se ne gode il successo. È la paura ad ancorarci al passato o a suggerirci un futuro possibile. Viaggiare, contando su se stessi, è superare la barriera della paura ed amministrare al meglio gli strumenti a disposizione, primo fra tutti il sorriso. Un viaggio è un esercizio della mente, un’escursione per le coordinate del mondo; un allenamento dei sensi percettivi. I profumi della terra d’origine hanno nuova veste, al ritorno.
Mirella, se ti chiedessero di individuare un colore rappresentativo della tua famiglia, e quindi della tua infanzia, quale sceglieresti?
Scegliere un colore, in questo caso, è navigare senza bussola nella scala cromatica della luce. Le cromìe a me care sono legate ad un filo d’Arianna che genera riflessi diversi a seconda del colore dell’ambiente circostante, delle ombre e della temperatura cromatica. I colori cambiano se cambia la luce che colpisce un oggetto: così è la storia, i ricordi, l’infanzia. Di certo, ciò che mi rappresenta non è una gamma pallida di colori. L’eredità che mi compone è di gamma calda: intelligenze vive, grande senso dell’onestà insieme ai valori supremi del rispetto e della formazione continua. È chiaro il ricordo della mescolanza cromatica dell’età scolare: nuove pennellate nel quadro della mia esistenza rendono i toni più freddi per la presa di coscienza delle scale sociali (provenendo da una famiglia poco abbiente mi scontravo con il sistema “di classe” della scuola elementare Oberdan). Il senso di giustizia ha cominciato ad ispirare i miei scritti sin dall’età infante, quando descrivevo i miei punti di vista su quegli enormi fogli bianchi da annerire in classe. Grande, il mio amore per l’espressione. La gamma calda dei colori di famiglia subisce, ahimè, progressivi assottigliamenti per la perdita prematura di più figure familiari. E, come una sintesi additiva, la tavolozza della mia vita si tinge della luce e del calore di un percorso che rifarei.
Fucina domestica: non una semplice abitazione ma qualcosa di più. Un approdo o un punto di partenza? Cosa rappresenta nel tuo animo questo luogo grondante di naturalezza?
Nella retta della vita chi può dire se un punto è d’approdo o di partenza? Il mare della nostra esistenza è il fluido che ci spinge a galla alla ricerca di ossigeno. Esso è la nostra casa e, come ogni nostra propaggine, racconta la nostra relazione con il mondo. Mi piace pensare alla casa come ad un perimetro permeabile che si modifica continuamente per un processo osmotico di scambio con l’esterno. Siamo involucri, noi e le nostre case, microcosmi o grandi schermi di proiezione di desideri e sogni, di dialoghi e monologhi, di curiosità e studio. Questa è Fucina Domestica, Associazione di Promozione Sociale. Una casa mediterranea nel cuore di Andria che, oltre ad essere la mia dimora da 15 anni, è luogo di eventi d’arte, letteratura, teatro, musica, fotografia. Un palcoscenico su cui costruire e sperimentare sinergie artistiche. Un terreno di cultura. Una fucina di idee a quattro rampe dal suolo e a due passi dal cielo.
Giogio Gaber diceva: “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”. Cosa si cela, secondo te, dietro il sacrosanto principio della libertà?
Libertà, un termine parecchio abusato negli ultimi decenni. Opportunisticamente scambiata per il diritto di fare delle proprie pulsioni materia collettiva, la libertà è spesso esperita con l’esercizio di privatissimi interessi, senza passare per una dovuta autocensura. La libertà, nel senso ortodosso, è garantita quando c’è il rispetto nell’approccio all’altro; quando, esercitandola, si garantiscono la salvaguardia e i diritti di tutti, dentro uno spazio di regole condivise. Libertà è partecipazione, e la partecipazione presuppone conoscenza. Intervenire nei processi storici, spesso a garanzia dei più deboli, è una capacità che si acquisisce con una formazione continua, sia accademica che di pratica sociale. Fa parte del mio percorso formativo l’oggettivazione di queste tematiche. Conoscere, approfondire, cercare soluzioni, essere ammortizzatori di conflitti sociali è una forma nobile di partecipazione: essa produce maggiori libertà per tutti. L’esercizio della libertà, dunque, è impiego di energia pulita, rinnovabile e senza scorie radioattive.
conosco mirella ,ho viaggiato per lavoro con lei e con lei diviene possibile il contrario ….la sua spontanea capacita’ di dare un colore a tutto quanto s’incontra,o meglio a riconoscere cio’ che gia’ e’ , potrebbe permettere a tanti di viaggiare da fermi e a tanti altri frenetici viaggiatori di fermarsi e , vedere cose che mai conosceranno l’oblio .