
Una storia di abusi, molestie e stupro. Ma chiunque ha il diritto di star male, di riaffermare la legittimità del suo dolore. E di non restare solo.
È proprio vero che molte volte il vissuto di una persona, nonostante sia orribile e difficile da doversi portare addosso, forma il suo temperamento: le cicatrici delle esperienze parlano per noi e spesso possono essere utili perché nessun altro in futuro possa subire grandi ferite da dover rimarginare.
È quello che è accaduto alla ragazza di cui riporto la testimonianza, la cui identità rimarrà nascosta per sua espressa richiesta. Credo non ci sia null’altro da aggiungere se non lasciar spazio alle sue parole.
“All’inizio avevo 10 anni. Lui si avvicinava a me sussurrandomi qualcosa all’orecchio, dopodiché cominciava a toccarmi. Sentivo le sue mani scivolare sul mio corpo e scrutarne ogni parte. In quei momenti non percepivo la gravità di ciò che mi succedeva, ma certamente ne coglievo la stranezza, tanto da scriverlo sul mio diario.
Quella persona è molto più grande di me e molto vicina alla mia famiglia: è il padre di mia madre. I miei genitori lo scoprirono proprio leggendo il mio diario, ma hanno sempre evitato di parlarne, per non farmi evocare quei ricordi, per proteggermi dal mio passato. Ed è per questo che non è mai stato denunciato. Chissà cosa sarebbe successo, chissà come l’avrebbe presa mia nonna, sua moglie: avevamo paura che si potesse suicidare per il dolore. Perché, per altri motivi legati a suo marito, in passato l’aveva tentato.
Hanno cercato di allontanarmi da lui il più possibile, ma era pur sempre mio nonno: capitava qualche volta che lui venisse a prendermi da scuola, o dalla palestra che frequentavo, perché i miei genitori non potevano per motivi di lavoro.
Provavo sempre paura quando mi trovo con lui, condividendo lo stesso ambiente. Quando eravamo in macchina, alzavo il volume della radio, o picchiettavo con le dita sugli sportelli: tutto, pur di non dover sentire i suoi sussurri ispidi nelle mie orecchie.
Ma a parte tutto ciò, il pensiero che quell’uomo condivida con me parte del suo corredo genetico mi fa sentire sbagliata, come se qualcosa dentro di me fosse malato già dalla mia nascita, come se un giorno questo tumore trasmessomi da lui possa crescere e farmi diventare come lui. E il pensiero che lui dovrà lasciare questo mondo, prima o poi, mi lascia totalmente indifferente.
Questi episodi, tuttavia, non sono gli unici di cui vorrei parlare. Ciò su cui vorrei soffermarmi di più è un avvenimento in particolare, accaduto molto recentemente.
Ero sola, col mio ragazzo, stesa sul letto, in intimità con lui. Decidemmo di provare il sesso anale per la prima volta.
Dopo un po’ cominciai a sentire molto dolore. Dissi subito al mio ragazzo di smettere, ma lui non lo faceva. Cominciai a gridare, a piangere, a implorarlo di fermarsi. Il dolore era troppo. Ma lui continuò, perché voleva venirmi dentro.
Quando finalmente si fermò, scappai in bagno a piangere: mi sentivo una pezza, un giocattolo nelle mani di qualcuno che voleva soltanto usarmi per raggiungere il piacere, mi sentivo violata. Uscii dal bagno, il mio ragazzo si avvicinò a me dicendomi che ero stata brava.
Come per gli episodi precedenti, mi sono sentita sbagliata. Forse è colpa mia se amo certa gente. Forse me le vado a cercare certe cose.
Nessuno è riuscito a capire quanto questo avvenimento abbia inciso sulle mie relazioni successive. E mi chiedo: non può essere stupro? Perché lo stupratore deve essere solo lo sconosciuto che ti trova per strada, e non qualcuno a te molto vicino? È ovvio che all’inizio c’era anche la mia volontà. Era partito tutto come una piacevole esperienza erotica col ragazzo che amavo, ma poi si era trasformato in una tortura. Non volevo altro, se non che finisse. Ed è proprio da lì, da quando la mia volontà è venuta meno, che si tratta di violenza sessuale.
Ho avuto la fortuna di aprirmi e parlarne con una psicologa. Mi ha aiutato a superare, in parte, questi miei traumi. Così le mie ferite si sono rimarginate e non continuano ancora a sanguinare. Ma niente, e di questo ne sono convinta, sarà in grado di farmi dimenticare ciò che ho vissuto sulla mia pelle.
Vorrei che chi leggesse queste mie parole e avesse affrontato i miei medesimi drammi non si sentisse solo. Vorrei che si ponesse i miei stessi interrogativi, che si sentisse libero di parlarne e non si facesse sopraffare dai suoi demoni. Perché è possibile, infatti, che l’aver subito determinate angherie possa innescare qualcosa di pericoloso nella psiche.
Per cui, in definitiva, mi sento di dire a codeste persone: apritevi con qualcuno, sfogatevi, se serve a farvi star meglio, perché avete bisogno di una carezza o di una parola di conforto. E non sentitevi per nulla sbagliati: ciascuno ha il diritto di star male, di soffrire, di poter riaffermare la legittimità del suo dolore e giudicare come sbagliato e riprovevole quello che ha subito, di non rimanere solo”.