“Un’amicizia profonda è sempre un grande dono, una vera fortuna. Ma nella desolazione del campo di concentramento essa può diventare ragione di vita”
Agli appassionati di Kafka certamente il nome di Milena Jesenska (1896-1944) evoca molte cose, ma Milena merita di brillare di luce non riflessa. La sua vita e quella di Franz Kafka si intrecciarono per un po’, insostenibilmente: ne resta traccia in un indimenticabile epistolario. Ma in Milena c’è altro, ben altro.
In Italia è stata tradotta un’antologia dei suoi articoli giornalistici col titolo “Tutto è vita”1 : si tratta di prose dallo stile diretto, senza retorica, piene di curiosità per l’esistenza, piene di profondità di esperienza.
Ad esempio, in un articolo del 1922, a proposito della giovinezza, scrive:
“Io non so per quale errata valutazione sia scaturito questo luogo comune considerato oggi verità, secondo cui la giovinezza è la sola epoca felice della nostra vita. Pensate, pensate solamente al dolore indicibile, all’inconcepibile panico dei vostri sedici anni, alla ricerca tormentosa di una scappatoia, di un terreno solido sotto i piedi… quel folle inseguire qualcosa di indefinito e di indefinibile, a tutte le notti trascorse in bianco… Certo, eravamo lieti, felici, un po’ folli, sventati, spensierati. Ma tutti avevamo in noi, nascosto, un dolore vero, immenso. Era il dolore di colui che ignora perché soffre, colui che di questo dolore un po’ si vergogna e un po’ si gloria e che proprio da questo dolore si forma e si sviluppa. Tutto dipende unicamente dalla sincerità e dalla profondità con cui l’essere umano assimila il dolore della propria giovinezza. Questo diventerà il suo metro, la sua ricchezza per tutta la vita” 2.
Altrove dice:
“Talvolta ho come l’impressione che l’essere umano viva sull’orlo di un baratro nel quale precipita il nostro presente… L’unica cosa di cui non sappiamo niente è il presente, questo pomeriggio, l’ora stessa che stiamo vivendo. Siamo a malapena coscienti del fatto che la vita è proprio il presente, “unicamente” il presente. Così prepariamo il tè e ci diciamo che non è che un intermezzo tra quello che è stato e quello che sarà. Ma in realtà non è così, in realtà questa è la vita. La vita non è altro che questo. Pensa esclusivamente a questo, coglilo nella sua pienezza, dimentica tutto il resto, senza essere triste o allegro, felice o pieno di desideri, perché tutto ciò è assurdo; sii presente e cerca, mio Dio, cerca di vedere soltanto quest’ora e di gustare tutto ciò che essa ti offre”3.
In altre pagine Milena si dimostra capace di far scaturire la poesia della vita anche in eventi davvero così poco letterarii. Come in “Traslocare”:
“Il giorno del trasloco è un giorno triste della vita. Certo, traslocare significa ripartire da zero, ma significa anche riscoprire tutto un passato, un passato che, retrospettivamente, appare sempre bello anche se è stato infelice… Oggi è un pezzo della mia vita a morire, mentre tiro fuori dallo scrittoio ricevute per il lavaggio di indumenti da anni consunti, fatture pagate e non pagate, strani appunti su questioni che allora mi tenevano occupata e che, nel loro evolversi, hanno poi preso una piega del tutto diversa… Ma la cosa più penosa è dover ora risalire e chiudere porte e finestre, prendere congedo. Congedo è una parola inutile, come inutile è tutto ciò che sappiamo di fare per l’ultima volta”4.
Molto resta da tradurre. Ad esempio un libro dall’accattivante titolo “La strada verso la semplicità”.
Eppure, la stella di Milena non brilla solo nella sfera delle belle lettere, quanto piuttosto in quella, ben più ardua, della vita, della storia del suo tempo.
Nasce da una prestigiosa famiglia praghese, il padre è un medico stimato. Vive un’adolescenza intensissima a contatto con i circoli intellettuali. È anticonformista, ribelle: il padre, per fermarla, giunge a rinchiuderla in una clinica psichiatrica. Ne esce, vive a Vienna un’infelice esperienza matrimoniale, conosce il fallimento, la miseria, poi la malattia e la dipendenza dalla morfina.
E poi ancora alti e bassi.
Approda al partito comunista e si getta a capofitto nella lotta. Quando Hitler invade la Cecoslovacchia è in prima linea a combattere la dittatura. Riesce a far fuggire molti perseguitati politici. Ma non può salvare se stessa (non ci pensa): viene catturata e deportata a Ravensbrück, 80 km da Berlino, campo di concentramento specifico per le donne e per le prigioniere politiche in particolare. Lì conosce Margarete Buber Neumann, tedesca, nuora di Martin Buber e poi moglie di Heinz Neumann, comunista tedesco, morto in un gulag staliniano. Nel 1937 Margarete stessa era stata internata dai Russi e nel 1940 consegnata da questi alla Gestapo in uno scambio di prigionieri5.
Nasce un’amicizia profonda, come tante a Ravensbrück. Lì, ancora oggi nel piccolo museo il visitatore guarda stupito i doni che le prigioniere si scambiavano: monili fatti con la mollica, poesie scritte in bella grafia su minuscoli pezzi di cartoncino, citazioni di Torquato Tasso tradotte in tedesco.
“Quando torneremo in libertà scriveremo un libro insieme” diceva spesso Milena a Margarete. Si sarebbe intitolato “L’era dei campi di concentramento”. Cosa non sarebbe stato quel libro scritto a quattro mani!
Margarete Buber Neumann ha mantenuto questa promessa con l’opera “Milena, l’amica di Kafka”, in cui scrive:
“Un’amicizia profonda è sempre un grande dono, una vera fortuna. Ma nella desolazione del campo di concentramento essa può diventare ragione di vita. Quando eravamo insieme, Milena ed io riuscivamo a tollerare l’insopportabile presente. Ma per la sua forza e la sua esclusività, la nostra amicizia diventò molto di più, si trasformò in aperta protesta contro l’avvilimento. Le SS potevano vietarci qualsiasi cosa, degradarci a numeri, minacciarci di morte, ridurci in schiavitù, ma nei sentimenti che provavamo l’una per l’altra Milena ed io eravamo libere, intoccabili”.
“Milena era una delle poche persone che mai e poi mai sarebbero potute diventare indifferenti o insensibili. Vedeva l’orrore intorno a sé e in mezzo a migliaia di creature sofferenti ed era disperata di non poterle veramente aiutare. Ogni sera, uscendo dall’infermeria, raccontava le nuove atrocità cui aveva assistito. Da brava giornalista, non le sfuggiva nulla”6.
A Ravensbrück Milena stupisce tutti per la capacità di resistere con fierezza ai soprusi e di aderire alla vita e alla vita degli altri anche in mezzo al dolore ed al disinganno più radicali. Aveva già capito il limite delle ideologie e quanto esse siano distanti dalla vita reale e manteneva alto il senso dell’umano, della bellezza, anche di fronte alla violenza più brutale. Tutta la sua esistenza ci stupisce per la capacità di attraversare il bene ed il male, la fortuna e la disgrazia, senza moralismi di facciata, alla luce del valore superiore della vita stessa.
Nel lager si prodiga per curare e salvare le prigioniere che passano dall’infermeria, tiene alto il morale delle compagne pur essendo oggetto dell’ostracismo delle prigioniere ancora fiduciose in Stalin.
I dialoghi che la Buber Neumann ci riporta volano al di sopra della storia di quegli anni per rivolgersi all’umanità del nostro tempo. A parlare sono due donne che hanno capito sulla propria pelle, in netto anticipo sui tempi, quello che sarebbe accaduto in Europa e la natura stessa del potere politico totalitario, al di là delle differenze di simbologia e di facciata. A questo orrore opposero uno sguardo lucido, una tenace e tenera complicità, sfuggire alle guardie per incontrarsi di notte e semplicemente parlare, raccontare, ricordare.
Milena Jesenska morì il 17 maggio 1944 a Ravensbrück. Margarete Buber Neumann, nata Thuring, vivrà fino al 1989, dopo aver dedicato tutta la sua esistenza a denunciare le violenze del nazismo e dello stalinismo8.
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1 Milena Jesenska:”Tutto è vita”, Guanda, 1984.
2 Ibidem, pag. 58.
3 Ibidem, pag. 90.
4 Ibidem, pag. 94.
5 Vedi il racconto che ne fa Tzvetan Todorov in “Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico”, Garzanti, Milano, pagg. 115 e segg.
6 Margarete Buber Neumann: “Milena, l’amica di Kafka”, Adelphi, 1999, pag.27
7 M.Buber Neumann: “Deportée à Ravensbrück”, Seuil, Paris, 1988, pag.42.
8 M.Buber Neumann: “Als Gefangene bei Stalin und Hitler” (“Prigioniera di Stalin e di Hitler”), Seewald Verlag, Stuttgart, 1985.