«Dio mi perdonerà: è il suo mestiere»
(Henrich Heine)

Salento, estate sui generis, c’è stata meno affluenza del solito, la mia proverbiale misantropia ne ha giovato molto, ho potuto evitare di stancarmi del mondo e a tratti godermi con più piacere le poche persone la cui presenza non diventa inesorabilmente un inconsapevole ed incolpevole macigno.

Ieri un’amica mi ha invitata per un caffè pomeridiano al volo e, in rispondenza perfetta alle condizioni in cui viviamo qui per due mesi l’anno, come selvagge che non conoscono la civiltà, siamo scese verso il bar della pineta: pantaloncini, reggiseno del costume da bagno, infradito, capelli raccolti alla meglio, quattro spiccioli in mano e niente altro. Camminando con la flemma tipica che contraddistingue questo luogo senza differenza oraria, noncuranti delle pozzanghere figlie del temporale estivo di qualche ora prima e dell’aria umida sulle spalle, siamo arrivate a destinazione, ci siamo sedute sulle sedie non proprio asciutte, abbiamo iniziato a chiacchierare e la figlia ancora nanissimaissimacinquantacentimetrituttoattaccato della mia amica, ha iniziato a parlottare lasciandoci abbastanza stupite: niente, la pallina duenne è un personaggio che pare, però, avere tempi lunghi per aprirsi, essere parsimoniosa di sorrisi e parole… difficilmente si lascia andare.

Ergo, lo stupore stava in quel suo raccontarsi come se io, di fondo per lei estranea, non fossi estranea: “Ehi, le piaci!”, ha detto la sua mamma, “Non si lancia mai così presto”.

Eh, ho pensato, i bambini e i cani non sbagliano mai niente, lo sanno cosa c’è dietro alle persone, lo sanno sempre e con questo non stavo pensando al fatto che evidentemente dietro di me poteva esserci del buono, solo consideravo che deve esserci del miracoloso in certi istinti. In altri termini, io in totale onestà, so di non essere la madre dell’anno e nemmeno la pedagogista del secolo, peggio se con l’infanzia, ma so anche che quando ho davanti i bambini, davvero senza volerlo, perdo le difese, i muri, tutto: è solo un istinto, un dono, non c’è merito.

Succede che ci guardiamo, loro studiano – studiano sempre – e poi partono e a quel punto io salgo sul treno e seguo a ruota. È facile in questo senso: loro scelgono e da quel momento va tutto bene.

E che cosa mi ha portato, stamattina, a ripensarci? Qualcosa che apparentemente non ha nulla a che fare con tutto questo.

Ho beccato, per caso su un social, una persona che appartiene alla schiera dei profondi credenti dichiarati, quelli che non lesinano sulla loro fede, la pubblicizzano sempre, anzi no, scusate, dovrei dire che evangelizzano… altrimenti poi si offendono, che ha postato le parole di quattro persone illustri: Einstein, Zichichi, Polkinghorne, Hoyle. Tutti e quattro, senza sia necessario precisare con dovizia il fatto che siano stati fisici, divulgatori, matematici, uno anche teologo, con parole diverse, hanno asserito che la scienza deve ammettere l’esistenza di Dio.

Non sto qui a citarli testualmente, non servo io, loro sono abbondantemente sufficienti a sé stessi per essere rintracciati: piuttosto sono qui a chiedermi e chiedervi perché, i profondi credenti, sentano il bisogno di scomodare tanto immenso genio per provare a risultare credibili e convincenti.

E no, non me lo spiego. Perché dovrei convincere qualcuno dell’esistenza di Dio, facendo leva sulle opinioni di menti eccelse? Perché dovrei sentire il bisogno di aiuto da parte loro per rendere più credibile agli occhi dei più la mia fede?

Gli scienziati dovrebbero servire a me e a tutti per sciogliere almeno alcuni dei dubbi e delle domande sul mondo tangibile: io poi sarò condannata ad essere eretica, ma non ho timori a dire che non ci penso nemmeno ad Einstein, Zichichi, Polkinghorne ed Hoyle per dire la mia fede.

Mi basta Evaluna, quella piccola patata di due anni che non sa parlare bene, non sa leggere, non sa scrivere, non sa far di conto, non sa ancora nulla di “cultura adulta”, non mi conosce e sceglie però di dirmi che sulla figurina davanti a lei c’è un panda circondato da foglie verdi. Lei che difficilmente fiata con chi non conosce. Lei che si muove per istinto.

Scusatemi, dovete spiegarmelo, chi può aver detto ad Evaluna che io non ero un nemico da cui difendersi, un adulto che richiedeva più tempo per essere misurato? Chi può averle regalato la serenità necessaria per aprirsi in due minuti? Chi può averla rassicurata rispetto al fatto che poteva fidarsi di questa scema? Chi, chi può guidare un istinto così genuino quanto infallibile se non Dio? In altri termini, chi cavolo può sapere, di me, che ho un debole per gli esseri alti 50cm e averglielo in qualche modo suggerito?

Mah, sono tutta storta e certamente dissacrante, forse anche poco rispettosa, eppure non ci riesco a pensare di dover dire Dio partendo dall’immensità del genio. Io lo vedo a partire da lì, quando devo guardare verso il basso o piegarmi sulle ginocchia: negli occhi di Evaluna.


FontePhoto by Peter Burdon on Unsplash
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.