
Guizzi di arte e di cuore nella sua casa aperta a bambini e gente umile
Due donne, novant’anni di differenza tra di loro. Una, pittrice, Maria Coliac Picardi, novantasei, sguardo sincero, fasciata di luce, mano sinistra su un cavalletto per dipingere, la destra in grembo; l’altra, una bambina, Maria Rita, figlia di una famiglia contadina, seduta in prima fila, occhi luminosi, lunga coda dei capelli, sei primavere.
La sua candida manina, più volte, educatamente si erge. Per chiedere spiegazioni, porre domande, esporre le proprie incipienti esperienze di pittura. Senza alcun imbarazzo, con genuina deferenza. Aspetta imperterrita col braccio teso verso il soffitto fin quando le viene concessa la parola. Rudolf Steiner, che di scuola se ne intende, privilegiando nel percorso educativo le belle arti fino ad otto anni d’età, sorride di gioia, ammiccando sornionamente da una remota stella.
Mimma, per i congiunti, ascolta, compiaciuta, orecchio claudicante, allunga la testa in avanti, per non perdere neanche una sillaba dell’infantile eloquio e per il rispetto della dignità dell’intrepida interlocutrice. Poi, risponde con amabilità, soddisfacendo appieno le curiosità della bimbetta e sollecita i suoi genitori a farle frequentare una scuola di pittura.
L’anfitriona invoglia anche gli altri ospiti, gente umile di paese, che occupano comodamente sedie della propria abitazione, a porre domande, a chiedere chiarimenti. C’è da intimidirsi, sapendo di dialogare con un’artista di grande caratura, ma i quesiti fioccano come, durante una giornata uggiosa, batuffoli di neve si rincorrono fino a posarsi delicatamente sulla candida coltre.
Ne viene fuori una comunicazione che mette a contatto anime, un parlarsi con dolci occhi che ha il sapore del tempo antico quando intorno al braciere, carboni ardenti che si consumavano lentamente, polpacci arrossati, si raccoglievano bambini, genitori, nonni, zii, cugini vicini ed amici. Geloni alle mani, si tremava per il freddo, ma si era riscaldati dal calore umano.
Esalavano nell’aria i profumi di ceci, fave e patate, scoppiettanti, messi a dormire in un letto di braci ardenti, coperte da lenzuoli di cenere, umili cibarie, consumate con gusto e grande appetito. Si chiacchierava dei danni della grandine, delle cipolle vendute a un prezzo irrisorio, della mula morta all’improvviso e compianta per due giorni, dei pomodori marciti per la pioggia, del corredo nuziale, panni a dieci, della vicina di casa, del cantaro che si era rotto mentre lo si sversava nel pozzetto del vano portone.
Nel salotto della signora Maria, aperto a gente veramente interessata all’arte, si vive un’atmosfera analoga. Grande ascolto, reciproco. Empatia che ricorda l’abbondanza e la qualità delle cascate del Niagara. Nessuno sale in cattedra, bandita la supponenza, non c’è la rincorsa ad ostentare. Umile ed autentica relazione. La fragranza questa volta non si effonde dal basso, ma discende, armoniosamente, dalle pareti illeggiadrite da creazioni artistiche.
Ne guardi una, la contempli, soggiogato. Sgomento! Occhi spalancati, bocca socchiusa, viso sorridente. Una mamma teneramente abbraccia la figliuola. Che maestria! Partire da una semplice superficie piana e far emergere forme volumetriche, una testa, un braccio, un tronco, un’onda. I colori, bilanciati, sfumano l’uno nell’altro con una gradualità impercettibile. I visi di donne, uomini, bambini parlano, esprimono sentimenti. Si muovono, le marine, urlano le pietre, le foglie verde argenteo degli ulivi vento, sospinte dal vento maestrale, farfugliano, le strade brulicano di gente affaccendata.
Maria racconta con disarmante semplicità, incisiva efficacia, e il pubblico esprime la propria partecipazione, alternando riverente silenzio a scroscianti applausi. Era ancora una bimbetta con due trecce che illeggiadrivano il suo collo da cigno, quando la sua anima prese fuoco per la poesia, la scultura e la pittura, lingue di fiamme avvampanti che lambivano il cielo, ancora adesso fiammeggianti.
Nel Seicento era disdicevole che una donna si avvicinasse all’arte, roba prelibata riservata esclusivamente ai maschi. Così imponeva l’ingiusta società patriarcale. Tempi remoti. Orazio Gentileschi, però, pittore romano, amico del Caravaggio, vedendo che la sua figliuola Artemisia, mani febbrili nella sua bottega, dipingeva in maniera sublime, ne assecondò la sua vena artistica.
Nel diciannovesimo secolo non era di molto cambiato l’atteggiamento maschilista, l’esclusione della donna dalla possibilità di toccare le vette della creatività, ma Vincenzo Picardi, raffinato disegnatore, uomo che credeva nella semplice stretta di mano, persona libera da pregiudizi, paternamente innamorato della sua figliuola, accortosi del talento di Maria, ne spianò con piacere e determinazione la strada, facendole frequentare la bottega del maestro Vincenzo De Stefano.
Una decisione controcorrente, coraggiosa, una scelta oculata di un maestro che conosceva bene la pittura e riusciva ad infiammare il cuore di quanti accarezzavano l’ardire di frequentare la sua bottega, in via Nazareth, la sua persona, quella di galantuomo.
Sono passati quasi novant’anni da quel lontano giorno, nella stanza da letto di Maria pende ancora la sua prima esercitazione pittorica, il suo primo quadro, un paesaggio montano con cime innevate, che bucano il cielo, tenera testimonianza del suo amore per la pittura e per la persona che le aveva insegnato i rudimenti dell’arte, alimentati con un portentoso mantice.
A passettini avanzavano, gli anni della fanciullezza, l’adolescenza bussava impetuosa all’uscio della vita. Maria procedeva con piglio sicuro, lasciandosi sempre di più infervorare dalla sua passione. Niente la distraeva dai suoi dipinti, non provava nessuna attrazione per gli interessi delle compagne, per i baci rubati di nascosto. Anni di studio, di esercitazioni, che strutturavano l’abilità, la sensibilità, l’anima. Diventava di giorno in giorno, di anno in anno sempre più donna ed artista ad ampio spettro.
Avrebbe ancora continuato a dipingere con il suo pigmalione, il suo mentore, ma il vegliardo venne a mancare. In fin di vita volle rivederla, salutarla lasciarle l’ultimo insegnamento, mentre i rantoli cominciavano a farsi sentire. “Maria, mi raccomando, quando fai un capolavoro non sentirti soddisfatta, vai oltre, oltre, oltre.”
La feconda allieva rimase fortemente provata emotivamente ed affettivamente per il vuoto che si spalancava. Ancora oggi le si umidiscono gli occhi, volgendo il pensiero a quel nefasto giorno in cui le pervenne la ferale notizia. Per lei, animo sensibile che si coinvolgeva alle gioie ed ai dolori degli altri, era come se fosse venuto a mancare uno di famiglia. Di più!
Per dimenticare e per amore verso lo studio, si gettò a capofitto nei libri, nelle ricerche e concluse brillantemente le scuole superiori. Si chiudeva un capitolo della sua vita e se ne apriva un altro, con un abbrivio impegnativo. Avviarsi al lavoro, continuare gli studi, ma quale indirizzo?
Per molti, grandi perplessità, ma non per la figlia di Vincenzo. I suoi acuminati occhi vedevano lontano e limpidamente. Senza nessuna incertezza, una fredda mattina autunnale in cui le scure nuvole riversavano dal cielo secchi d’acqua, non gocce, salì sul treno accompagnata dal suo angelo custode e raggiunse Roma dove si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti.
Che gioia per lei, frequentare altre botteghe, conoscere nuovi maestri, impossessarsi di tutte le tecniche pittoriche, sperimentare nuovi stili, dipingere sui materiali più svariati! L’euforia era alle stelle, nonostante i rischi del tempo e i pericoli minacciosamente incombenti.
Tempi di guerra, comunicazioni interrotte, ma col passa parola le notizie soprattutto quelle terribili correvano veloci. Bombardamenti, scontri tra tedeschi ed alleati alle porte di Roma, rastrellamenti, stupri, Fosse Ardeatine. In subbuglio il cuore dei genitori per la figlia così lontana. Confrontandosi serenamente padre, madre, fratello, sorella, e figlia, maturò una soluzione condivisa. Meglio per la tranquillità di tutti che si trasferisse all’Accademia di Napoli, dove viveva la sorella.
Nell’aria dell’antica capitale del Mezzogiorno volteggiava il profumo di Artemisia Gentileschi pervenutavi dopo aver abbandonato Roma per stupro e raggiunto Firenze dove aveva frequentato la corte di Cosimo de’ Medici e fatto amicizia con Galileo Galilei.
Quante volte visitò la cappella Sansevero di Napoli, dove era esposto l’incredibile “Cristo velato” la scultura marmorea di Giuseppe Sanmartino! Le opere dello scultore Vincenzo Gemito, il genio dell’abbandono. In città ebbe anche modo di conoscere e frequentare il pittore barlettano Paolo Ricci, fervente antifascista, critico d’arte, amico di Paolo Neruda, Nazim Hikmet, Dario Fo.
Dalla stazione di Napoli vide partire migliaia di bambini, che rischiavano letteralmente di morire di fame. Raggiungevano, grazie al massiccio intervento del PCI, generose famiglie operaie del Nord Italia, che li ospitavano. Su questo dimenticato fenomeno di emigrazione interna e di solidarietà, la scrittrice Viola Ardone ha scritto il bel romanzo “Il treno dei bambini”.
Finiti brillantemente gli studi, carica di un portentoso bagaglio culturale ed esperienziale, Maria era pronta ad intraprendere attivamente l’attività artistica, ma al suo cuore bussò l’amore, e lei spalancò fervidamente i battenti. Frequentava da tempo un simpatico amico, figlio di una famiglia arrivata dalla Francia a seguito della fillossera, catapultatasi nel paese di Eraclio per interessi vitivinicoli.
Il giovane Leopoldo, affascinato dalla simpatia, dalla creatività e dalla serietà della compagna di giochi spensierati, le lanciava languide occhiate. Le avances diventavano sempre più pressanti, finché il falò divampò. Ambedue le famiglie, che intuivano dagli sguardi la nascita di un tenero idillio, sorrisero alla lieta notizia e i due fidanzatini decisero di convolare a nozze.
Non passarono molti mesi e i novelli sposi, gioiosi, comunicarono la nascita di Margherita seguita poi dalla sorella Anna. Che esperienza travolgente! La poesia e la pittura umilmente in quegli anni fecero un passo indietro, capendo che bisognava dare la precedenza alle gioie del talamo ed alle bambine, figlie femmine, una gran fortuna, il bastone della vecchiaia. Nel Mezzogiorno.
Gli anni passavano, la sua anima ribelle si era placata, le bambine crescevano rigogliosamente, allegria e gioia inondavano casa Coliac. Un languore, però, si faceva sempre più strada nell’emisfero destro della novella casalinga, madre di famiglia, moglie, quello della creatività.
La pittura e la poesia, che non avevano mai cessato di palpitare, cominciarono ad essere irrequiete, a perdere la pazienza. Guizzi di arte saettarono. La strattonarono, imperiosi volevano ritornare agli splendori dei bei tempi in cui erano protagonisti. Quante volte in quel periodo Maria, stringendo tra le sue braccia le sue bambine, accarezzandole, allattandole, preparando la pappina, sognava di dipingere scene di maternità!
L’astinenza, ormai, durava da un bel po’, la fame si faceva impetuosamente sentire. I richiami erano sempre più insistenti, le orecchie sempre più disposte all’ascolto. Il suo spirito combattivo gorgogliava sempre di più, infine si mise a bollire, finché emerse la determinazione di riappropriarsi della propria identità personale ed artistica.
L’input. Una mattina, mentre furtivamente dipingeva lungo la strada che collegava Zapponeta con Manfredonia, dove fenicotteri, aironi cinerini, germani reali, avocette e chiurli volteggiavano su di lei nella umida zona circostante, di colpo inchiodò una macchina. Scese un distinto signore, il direttore del quotidiano “Il Tempo” che cortesemente la pregò di abbandonare quel posto pericoloso per una giovane donna e raggiungere la sua abitazione.
Lui la scortò fino all’Ippocampo. Arrivati a destinazione si scoprì che era amico di suo fratello, del padre e del marito. Quando il giornalista vide alcuni suoi quadri, inebriato da tanta bellezza, sollecitò l’immediata realizzazione di una mostra personale. Un successo di pubblico e consensi. Una manna dal cielo veniva a sbloccare una situazione che poteva diventare destabilizzante per la famiglia e la personalità di Maria.
Così, senza minimamente trascurare la famiglia, continuando a coltivare tenero amore per il marito, partecipando ai giochi ed agli studi delle figliuole, la giovane mamma, riannodò il suo entusiasmante e travolgente rapporto con le tele, i pennelli, la penna, che sospirarono di letizia. La vita così veniva vissuta nella sua pienezza nell’appartamento dove arrivavano i profumi dei vini della sottostante ditta vitivinicola di famiglia.
C’è silenzio nello studio, ogni mattina, quando Maria raggiunge il suo regno. Intende fortissimamente dipingere, ma il progetto non si manifesta immediatamente in tutti i dettagli, persistono consistenti ombre desiderose di diventare sempre più evanescenti. Per giunta una sottile, impalpabile apprensione la pervade per il grande rispetto che prova per l’arte. Si accosta timidamente al cavalletto, lo saluta, lo accarezza e vi adagia, come se stesse celebrando un rito sacro, una tela, bianca.
Intanto, l’intuizione, ancora in nuce, matura, prende sempre più forma, acquista fattezze, come un embrione in un caldo corpo materno. È il momento di abbozzare l’opera che verrà realizzata nella pienezza delle sue linee forme e colori sulla tela. Gesti vissuti con grande umiltà, acquisita inebriandosi della bellezza del pianeta azzurro, che sovrasta ogni tentativo di presunzione umana.
Abbranca, allora un pennello e vi spande con forza un amalgama di gesso e colla. Ne scaturisce, una superficie scabra, su cui si distende con levità un leggero strato di colore, grigio, beige o rosato, che si deposita negli anfratti, si arrampica con piacere sui leggeri declivi e fluidamente scorre sulle distese pianeggianti. Operazione che richiede forza ed energia. Prelibato boccone creativo sottratto alla luce del sole dall’alato concittadino Giuseppe De Nittis, amato appassionatamente, studiato con rigore, che, compiaciuto, lascia fare porgendo auguri sinceri.
Un gessetto traccia un rapido schizzo, e tramonti, marine, clown, bambini, ballerini, mamme, fiori prendono forma, si materializzano, vivono. I tramonti esplodono di rossi, gialli, arancione e colori complementari. Le onde delle marine, spumeggianti, sciabordano. I clown, facendo ridere a crepapelle, esprimono le loro sofferenze, che sono quelle di tutti gli uomini. I bambini si rincorrono o si rannicchiano tra le accoglienti braccia materne. Ardite le movenze, le evoluzioni dei ballerini e delle ballerine che si librano nell’aria. Le mamme con commozione stringono al petto le loro tenere creature. I fiori incantano con i loro smaglianti colori, arrivando anche a suggerire inebrianti essenze. La frutta si fa assaporare.
Ore di fatica e di passione. Il dipinto viene alla luce in tutta la sua pienezza creativa. Allora, solo allora, Maria, piccola/grande creatura umana, emula del Creatore dell’Universo, immanente o trascendente che sia, incredula dell’armonia realizzata, dell’equilibrio dei colori conseguito, delle forme palpitanti di vita prodotte, incantata, ringrazia Dio.
Non si contano le mostre, individuali o collettive a cui l’artista ha partecipato con fervore e entusiasmo, consapevole di uscirne più matura. Sono grandi occasioni per manifestare agli amici e sconosciuti la bellezza che lei percepisce, invogliandoli anche ad avvicinarsi alla pittura, a lasciarsi conquistare, travolgere.
È contenta di sé, dell’abilità e della sensibilità maturate, dei suoi saldi principi morali, impregnati di etica, del sentirsi realizzata come persona, di essere una donna pugnace, e respinge dal suo cuore ogni forma di vanità. Non ama la mitica figura di Narciso, che, specchiandosi nell’acqua, estasiato per le sue fattezze, si innamora di sé stesso. Per pudore ed anche perché simili manifestazioni di presunzione o fragilità offenderebbero il senso più profondo e vero del proprio essere e dell’arte.
Considerevole il numero delle attestazioni di stima e apprezzamento raccolte, fino a essere assunta come ambasciatrice della Puglia nel mondo, propugnatrice di pace. Non si inorgoglisce per i consensi plaudenti, li vive con un profondo e sincero senso della propria pochezza umana ed artistica, pensando a Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti, Raffaello, Caravaggio, Van Gogh, Jan Vermeer, Monet.
Ascolta rispettosamente le voci dissonanti che nascono da critici d’arte, colleghi e persone semplici di cuore che si pongono con notazioni costruttive. Dignitosamente e garbatamente respinge ai mittenti le notazioni malevoli, quando intuisce che siffatte voci nascono da cuori impuri, da avide menti prezzolate.
Cospicua la mole delle sue produzioni sulle più svariate superfici, tele, fette di legno, carta, ceramica, cortecce di alberi, tegole, tessuti. In tutto il percorso artistico le sue febbrili mani, l’instancabile vena creativa ne mettono al mondo alcune migliaia. La sua attuale collezione ne annovera oltre ottocento. Le pareti dell’abitazione non bastano, molte, le opere incorniciate, altre accatastate sul pavimento una dietro l’altra, disposte su tavoli; tante, su carta, riempiono capienti faldoni.
Non appena ha una superficie a disposizione, subito Maria impugna i pennelli li intinge nei colori e… parte all’attacco, sperimentando tecniche, materiali ed utensili diversi. Durante la guerra, mancando le tele, si servì persino di panni di iuta e rimase compiaciuta per gli effetti materici che l’irregolare tessuto inzuppandosi di colori metteva a disposizione della sua arte.
Si confessa. “Quando dipingi, se vuoi veramente produrre creature e ambienti viventi, piene di movimento, potentemente espressive, devi accostarti alla tua amata tela ed allontanarti, innumerevoli volte. Ora però..,”, volto verso il pavimento, una lunga pausa, quasi scusandosi, “gli anni cominciano a pesare sulla mia groppa. Obtorto collo, lavoro, almeno quattro ore al giorno, stando seduta!”
La sua anima si denuda: “L’arte in tutte le forme è tiranna, non dà tregua. Dà molto, è straordinariamente generosa con chi l’abbraccia, perché permette di avere un vivido contatto con la bellezza dell’umanità e della natura, perché dà senso alla vita, ma anche terribilmente esigente con chi la stringe a sé con ardore e competenza. Pretende pesanti rinunce, impone nuvole di sacrifici.”
Prende un libro, “Rugiada della vita”, inforca gli occhiali e legge come un’attrice consumata. Le lacrimano gli occhi, se li asciuga e riprende a declamare. Le liriche avvinghiano, e gli ospiti cogliendo che l’io che dipinge coincide con l’io che produce liriche e l’io che vive, ne apprezzano la pregnanza artistica, la capacità espressiva e il filo identitario che unisce la vita e l’arte.
Quattro giorni, un generoso dono per il popolo di Barletta, in cui, raccontando le sue opere, narra le sue vicissitudini. I colori e le linee sono intrecciati intimamente con le esperienze di vita. Non v’è studio in nessuna di loro, solo spontaneità. Se nella giornata la sua vita è sprizzante di allegria, allora prevalgono le tinte calde, se invece massi di sofferenza ed indignazione pesano sulla sua anima, prevalgono quelle cupe. Domina sovrano, sempre, il bilanciamento dei colori, la loro armonia.
Il primo appuntamento, dedicato alla Puglia, la terra che Maria ama appassionatamente. Luogo incantevole, smagliante di luce, ammantata di verde argentato, ocra di terra, bagnata dal mare placido ed effervescente di Diomede, olezzante di mosti, punteggiata di rocce calcaree emerse da mari ancestrali.
“Dobbiamo imparare a guardare” propone a sé stessa ed agli astanti, “a gustare le molteplici piccole e grandi emergenze territoriali.” Aggiunge, poi, con emozione: “Quando mi trovo in un bosco, in una steppa di grano, lungo la battigia, tra tralci e pampini, in un campo di gialle calendule, godo, mi nutro, poi al fido cavalletto esprimo le mie gioie, i miei auspici, i rimpianti. Tutto ciò che è spontaneo mi affascina, rifuggo dalla cattiveria, dalla bruttezza, dall’improvvisazione, dalla falsità. Detesto la mercificazione di luoghi e persone.”
Gli ulivi, tronchi contorti e rugosi, verdeggianti chiome danzano sulla Murgia in compagnia di pecore transumanti, tenui i colori. Il mare del Gargano, ne “La Grotta delle viole” si frange spumeggiante contro la scogliera e la modella. Costruzioni rustiche del passato riemergono, affermando la loro intima poesia, rievocando ricordi della civiltà agricolo-pastorale. Sabbie dorate. Pale di fichi d’India intrise di un verde azzurrognolo in brulle zone, aulenti ginestre abbarbicate su terreni aridi, rosolacci esplodenti di rosso vivo, vicini a timide rose vellutate, cardi che simboleggiano con l’apparizione della peluria e poi delle spine le varie fasi della vita dell’uomo.
È la volta, poi, della maternità legata alle esperienze vissute assieme alle sue figliuole, ai nipoti, alle pronipoti. Volti soavi, incarnati delicati, struggenti sguardi di affetto, mani affusolate, membra armoniose che affondano nella tela e riemergono con generoso trasporto.
Mentre si sofferma nel delineare i tratti salienti di una maternità, si avvicina a lei, bisnonna, la rampolla di Vincenzo, il figlio di Margherita, che le stampa un bacio sulla guancia. La vegliarda, commossa, per un attimo dimentica del pubblico, avvinghia a sé la piccola e teneramente la bacia.
Grande attenzione ai fiori e alla frutta sempre presenti nelle svariate circostanze nella vita dell’uomo. La profondità dei loro colori, la delicatezza, le esaltanti movenze delle linee, la maestosa volumetria giocano in una gara che vede trionfare l’armonia, il gusto e la raffinatezza. Dal pubblico si leva in piedi, una signora, si protende e le porge un bouquet.
Starebbe delle ore, la nostra, a discettare di ogni suo dipinto. A commuoversi e a far vibrare gli animi, sollecitati ad ammirare le bellezze della natura, ad apprezzare la vita, i rapporti di convivenza e darle senso, unica vera ragione dell’esistere
Mai la poetessa, anzi, “l’artigiana della parola”, come ama definirsi, mai la pittrice si lascia attrarre dall’effimero, mai si piega alle convenienze, mai briga per vantaggi economici. La gente vuole i suoi quadri, insiste per averli per dare un tocco di magia alla propria abitazione, all’ufficio, al negozio, e lei li vende.
Per continuare a lavorare, per comprare cornici, tele, colori, pennelli. Per investirli nell’arte. Non è oberata, come tanti mortali dall’impellenza del guadagno, quindi non dipinge per vivere, ma per saziare la sua insaziabile sete di bellezza da ammirare e produrre.
Ne ha regalati, poi, di dipinti, perché potessero alleviare le condizioni di disagio e sofferenza, che la stremano per la sua riluttanza verso le diseguaglianze economiche, per il sogno di una società più giusta! Ne ha fatti di ritratti per amici e conoscenti!
Ha dedicato nel passato il suo prezioso tempo e la sua professionalità a gente desiderosa di acquisire le tecniche artistiche. Alza la mano Ester Caputo, antica allieva della maestra Maria. Con la commozione agli occhi riferisce che la didattica faceva faville nella bottega di pittura. Ogni allievo riusciva a dare il meglio di sé stesso. Tutti venivano spronati nell’implementazione dell’autostima, ed i talenti emergevano numerosi come funghi. Nessuno era vilipeso psicologicamente come continua purtroppo ad accadere ancor oggi in tante scuole italiane.
Le due figlie Margherita ed Anna ascoltano la mamma attentamente, mentre una bambina di un paio di anni, l’altro pollone di Vincenzo, il lungimirante promotore dell’evento, guarda con occhi interrogativi la moltitudine di gente e sorride. Educare significa offrire delle occasioni per i propri figli, i nipoti, i pronipoti, e la famiglia Coliac, aprendosi agli altri, di converso raccoglie una cornucopia di doni.
Nell’aria si respira non solo la valentia artistica, ma anche l’umiltà, il sentirsi parte attiva e generosa di una comunità. I battenti del salotto si dischiudono, così conoscenti e sconosciuti, accedendo in altre stanze, hanno modo contemplare nuovi capolavori. Chi, poi, è ulteriormente interessato, chi vuole approfondire la conoscenza della poetica e dell’estetica della maestra può contattarla telefonicamente per concordare un appuntamento.
Questa bella persona, questa artista preziosa lascia un segno indelebile negli animi e nelle menti di molti contemporanei, ma anche dei posteri, come ha fatto Giuseppe De Nittis. Il pensiero corre premuroso verso i tanti artisti, semplici cittadini, professionisti di valore, per citarne solo alcuni di tua conoscenza, come Franco D’ambra, Peppino Doronzo, Roberto Tarantino, Pasquale Nasca, Anna Vinci, Luciana Capuano, Giacomo Borraccino, Antonio Lanotte, che con la loro generosa azione onorano la città di Barletta.
Invece, gli attuali potenti della politica, dell’economia, della burocrazia, della scuola, arraffatori e prevaricatori, lasciano solo macerie dietro di sé, sofferenze inaudite, arrecano molestie e danni alla collettività, e nessuno dei posteri si ricorderà con affetto di loro. L’indignazione e la riprovazione li accompagneranno per sempre.
Nessun personaggio pubblico nell’occasione circonda di stima e di ossequio la grande artista, né potrebbe mai apprezzare l’alto valore civile, sociale e politico dell’iniziativa, caldeggiata dalla famiglia, consapevole di essere stata privilegiata dalla vita per la comunione di affetti e la quotidiana convivenza artistica con una tale mamma, nonna, bisnonna.
Anche a Giuseppe De Nittis, oggi osannato e… irresponsabilmente trasferito in questi giorni con una cospicua mole di quadri a Washington, capitò sorte analoga. Anche a Paolo Ricci è successo qualcosa di simile, tanto che i suoi quadri, in un primo tempo donati dalla famiglia, hanno fatto ritorno a Napoli. Non si sa nulla, poi, della collezione “Grieco”, donata generosamente al Comune e abbandonata da tempo in qualche scantinato umido e polveroso.
Insomma ai grandi dell’arte, della scienza, della letteratura, che sono anche umili, succede di essere trascurati in vita, snobbati e guardati dall’alto in basso con supponenza ed alterigia dai detentori del potere economico, politico e burocratico, composto da gente insignificante umanamente ed anche professionalmente. Il tempo, però, galantuomo, separa il grano dal loglio.
Vito Sardaro, valente medico di famiglia e congiuntamente psicoterapeuta formatosi alla scuola di Mauro Scardovelli, quando gli riferisci della tua partecipazione agli incontri con la grande artista, chiosa: “Lo spessore dell’anima è nuvola ricca di acqua purissima che attende di fertilizzare l’umanità”.
L’articolo “dipinge”, è il caso di dirlo, con mirabili tratti una grande persona e artista. Per fortuna nella nostra città ci sono persone di cui essere orgogliosi!
Che belle parole in questo articolo che omaggia la bellezza prorompente dell’arte! Quando esprime la complessa interiorità, l’arte, tramite lo studio il sudore e il talento, crea una magia sociale, unisce i cuori e le menti, sprona a “egregie cose” l’animo delle persone sensibili… Grazie a Domenico Dalba che mi ha fatto conoscere questa bella persona, grande donna e brava artista che spero di poter incontrare presto di persona! Intorno a noi percepisco tanta malinconia in questa congiuntura storica e sociale che stiamo vivendo, in particolare la guerra e le guerre mai pensavo potessero avere ancora ragion d’essere nel terzo millennio: il mio cuore è pesante e la mia psiche ha fame di dolcezza e le opere di Maria Picardi Coliac la trasmettono pienamente con armoniosa intensità! Grazie ❤️
Grazie Domenico, per averci nuovamente regalato spazi di riflessioni, facendo conoscere spazi meno noti ai più, di questa nostra penisola. C’è proprio da innamorarsi della storia.
Questo racconto di Dalba sulla vita e sull”arte di Maria Picardi Coliac, è davvero stupendo. L’autore riesce a rendere viva, con eccelsa qualità letteraria, una grande storia d’amore per l’arte fatta di semplicità, di innocenza, si incontri speciali con maestri straordinari oggi sciaguratamente dimenticati dalle istituzioni del nostro paese.
La narrazione di Dalba ha inoltre il dono di farci vedere, quasi toccare con mano, i gesti spontanei della pittura della Coliac, che sembrano rivelare sempre, con semplicità, uno sconfinato amore per la vita.
Leggendo l’articolo di Domenico Dalba mi son reso conto della sua spiritualità descrittiva delle cose, da cui parte per inebriare il lettore, coi suoi virtuosismi privi di fronzoli, a quietare e mettere in risalto la bellezza, la finezza del suo scritto e giammai di suscitare tedio in chi legge. La persona oppure l’oggetto prese di mira da Domenico e dalla descrizione che egli ne fa, assumono sembianze uniche, tali da farle sembrare parte del nostro essere e di un nostro vissuto obliato, in valori che ti senti bussare di nuovo alla porta della mente e del cuore. La storia qui descritta è un gioiello letterario. Grazie tante Domenico per avermelo fatto leggere e grazie assai a Odysseo per averlo pubblicato.
Un commento pittorico, caldo, appassionato, denso, materico, sensuale e carico di mille sfumature.
È un vestito letterario perfetto per descrivere una artista come la Coliac che per seguire e inseguire la Bellezza dimostra che si può superare qualsiasi ostacolo e confine, sesso e religione, storia, spazio e tempo per essere
Artista a tutto tondo e mappamondo.
Cara Signora Coliac.Ho avuto l’onore di essere nel suo salotto,respirare Arte pura.Da quel momento è maturata in me’ l’idea di ospitarla nell’ambulatorio popolare di Barletta.Vincenzo suo nipote in accordo con lei,mi avete dato la possibilità di fare usufruire alla gente umile di una serata indimenticabile.Lei ci ha donato la sua anima .La devo ringraziare x la donazione di una sua opera.Nel mio cuore rimane il ricordo della sua forte e sensibile personalità,sono questi gli esempi che aiutano ad amare la vita,le donne come lei.Da donna le porgo i miei ringraziamenti,se potrà o avrà la possibilità aspetto un suo ritorno nel nostro modesto contenitore culturale .Un abbraccio.Tonia Sardaro😘
La lettura di questo articolo è un viaggio nel tempo e negli spazi che descrivono con maestria la bellezza dell’ arte e dell’artista che si fondono in un connubio di colori, suoni e sapori che il lettore percepisce tangibilmente. Grazie per questo tributo.
Grazie Domenico, grazie Maria Picardi Coliac . insieme e in forma diversa ci avete fatto sognare per il modo con cui si dovrebbe dar luce alla vita, insegnando una cosa molto importante per tutti: l’ umanità
Mi fa piacere aver letto il tuo articolo ricco di emozioni e averti incontrato dopo tanti anni. Confesso la mia lontananza dal tuo mondo, la mia ignoranza totale rispetto all”arte, ma anche il mio stupore per la tua vitalità e per la tua vita che sembra non fare i conti con il tempo che passa. Per questa ragione l’ncontro con te lascia un segno, si coglie nel tuo modo di essere l’arte di sapersi continuamente rinnovare, di entusiasmarsi, di crescere, di seguire i propri slanci, di dare tutto te stesso alla lotta per ciò che è davvero importante.
Penna fluente e creativa. Una descrizione della pittrice e della sua Arte che ti fa desiderare di conoscerla, di ammirare i suoi dipinti. Grazie Domenico per questo scritto che spazia nel tempo e ci fa sognare.
👏🏻👍🏻💪🏻🍀