C’è una gioventù educata, nonostante tutto, al rispetto, alla dignità, ad una lotta sana per raggiungere i propri obiettivi

«Tranquilli, mi riprenderò!». Queste le prime parole sulla bocca di Manuel appena uscito dal coma e rientrato in una realtà che, d’improvviso, gli si è rivelata completamente diversa da come l’aveva lasciata prima che capitasse la tragedia da cui è stato investito. Parole incredibili, coraggio incredibile, ai limiti tra naturale e soprannaturale.

Facile immaginarla l’angoscia di suo padre mentre lo fissava negli occhi, cercando le frasi giuste per raccontargli l’inaccettabile: forse non solo non potrà più nuotare, ma il suo destino rischia d’essere inchiodato definitivamente a una sedia a rotelle, per colpa di due balordi incapaci persino di centrare il bersaglio d’un odio insensato. E che dire della madre, lì presente, gli occhi puntati sulle reazioni immediate del figlio a una rivelazione così insostenibile. Incrocio di sguardi, decisivo: l’ansia sul volto della madre dà la forza a Manuel di trasformarsi, in un istante, da colui che va sostenuto e consolato, in colui che sostiene e che consola.

Scena d’altissima tragicità. Certo, inutile illudersi, il suo invito alla calma, la sua fiducia nel futuro, l’investimento istintivo sulla forza della vita, non risparmieranno né a lui né ai genitori i tanti momenti d’abbattimento, le tante ore di sconforto che da domani li attendono. Ma resta il fatto che in circostanze estreme spesso le prime parole sono quelle che contano, quelle che danno l’imprinting a tutto quel che seguirà.

Impossibile non provare commozione profonda di fronte a questa scena, anche solo immaginata, tra genitori e figlio, una scena che ha una potenza espressiva che raramente circola tra le cronache dei giornali. Ma proprio nei momenti più bui, la realtà, per quanto orribile, è capace di sprigionare simili squarci di luce.

Da questa vicenda, in ogni caso, emerge un dato preciso: c’è una gioventù, non si sa quanto minoritaria (speriamo non sia un resto di giusti!) educata, nonostante tutto, al rispetto, alla dignità, ad una lotta sana per raggiungere i propri obiettivi – lotta in cui la pratica sportiva, intesa e vissuta nel modo migliore, è maestra – e questa, di sicuro, è oggi la nostra meglio gioventù. Dobbiamo esserne fieri e riuscire ad additarla come modello a tanti ragazzi, deboli, disorientati, insicuri. Certo, è solo una fetta d’un universo giovanile al cui centro si distende una terra di mezzo, più o meno vasta, abitata dall’indifferenza, dalla competizione esasperata, dall’individualismo.

E poi, purtroppo è vero e i fatti più che mai lo confermano, c’è e si va dilatando a macchia d’olio un arcipelago di vite giovani, spesso adolescenti, che appaiono perdute, refrattarie a qualsiasi tentativo di rieducazione. Ragazzi nei quali, per un intreccio di ragioni, personali e collettive, l’incapacità di riflettere sulle proprie azioni, l’assenza di pietà, la miscela tossica di stupidità e malvagità producono danni irreversibili, a se stessi e agli altri.

Che dire? Può servire, in casi del genere, ricorrere al linguaggio biblico e parlare dei figli delle tenebre schierati contro i figli della luce? Evocare lo spettro, sempre ricorrente, di Caino contro Abele? Facendolo, forse si corre il rischio di scivolare nella retorica, ma sarebbe assai peggio se ora cominciasse la solita sceneggiata giornalistica e televisiva tra genitori ai quali si tenta di estorcere una risposta immediata sull’intenzione di perdonare chi ha distrutto l’esistenza del proprio figlio ed esperti sociopsicopedagogici chiamati a consulto per darci lumi sulle cause, prossime e remote, di tanta umana miseria. Invochiamo meno chiacchiere, un po’ di silenzio nei confronti delle vittime di tanto orrore, ma anche, anzi, soprattutto, più tempestività, più risolutezza nel punire adeguatamente i colpevoli, evitando sia i pietismi che i giustizialismi. Senza dubbio il carcere, in particolare per chi è giovane, non deve essere solo un luogo di punizione, ma di possibile ravvedimento.

Tuttavia, si dà il caso che, se si esita ad infliggere una dose equa di punizione, il ravvedimento rischia di rivelarsi un bluff e trasformarsi in una farsa. Se c’è un dovere sociale nei confronti di chi ha subito un torto – lesivo non solo della dignità, ma della vita o, se non altro, della qualità e delle potenzialità della propria vita – questo dovere deve concretizzarsi in atti di giustizia rapidi ed efficaci, adeguati alla gravità dei fatti, senza alibi d’alcun tipo, neanche quello di tirare in ballo la recente paternità dei due delinquenti, sulla cui inadeguatezza al compito di genitori c’è poco da discutere o da indagare. Se mai, anche sotto questo profilo, ci sarebbe da intervenire con urgenza, per preservare dai danni, nei limiti del possibile, altri innocenti.