Il mese di maggio arrivava sempre puntuale a maggio.
Il mese di maggio arrivava sempre puntuale a maggio. Capivo che era vicino dai boccioli di rose che erano così compressi e pronti a sbocciare ma a me pareva a scoppiare. Cambiava l’inclinazione della luce, il buio tardava a venire, la gente era più affabile. Persino la signora Livia, nostra superba vicina di casa, cominciava a sorridere. Niente di eccezionale sia ben chiaro, sempre guardava al di là delle nostre teste, ma almeno non ci passava sopra col broncio. E poi, primo miracolo, apriva le porte della sua bella casa. Aveva Livia un soggiorno enorme pieno di mobili lucidi e argenti che noi guardavamo dai fori delle tapparelle sempre abbassate. Al tramonto, assurdo ma vero, l’intero quartiere poteva entrarci e, se proprio si era in tanti, arrivavano sedie passate direttamente dalla grande finestra che dava sulla strada. Come uno spettacolo oramai rodato, all’ora in punta eravamo lì tutti fermi rivolti al palcoscenico. La prima attrice ci guardava altera più della signora Livia. Presentava lo spettacolo un buon don Sabino, voce bassa e melodiosa che scendeva di tono più ci si avvicinava all’inizio. In realtà diceva sempre le stesse cose, i bambini avanti li voleva accovacciati, ringraziava la nostra gentile ospite che si impettiva e di più. Alla fine zittiva, silenzio con suspence e finalmente si cominciava: era maggio.
Partiva all’unisono un canto o un lamento, come un chiedere e un ricevere. Tutti assieme a ripetere le stesse parole più volte e di nuovo ancora. Sul palcoscenico, con scenografica tovaglia bianca tendente all’azzurro e stupendi merletti inamidati, lei continuava a guardarci. Mi chiedevo come faceva a sopportare l’odore dolcissimo dei fiori che la circondavano . Erano tantissimi, in prevalenza rose rosse, qualche bianca e gialla, le arancioni striate e poi le calle. Secondo miracolo, zia Rosaria aveva permesso di tagliarle nel suo giardino quando neanche guardarle noi si poteva. Ma la vecchia zia era lì in ipnosi, prima fila per giunta.
Tranne don Sabino, neanche un uomo. Che poi era un uomo che indossava lui pure una gonna.
Lei era donna per le donne, pensavo. Lontane quelle chiese fredde e buie, dimenticati quei crocifissi deturpati dal dolore di un uomo che muore straziato. Rimosse quelle gocce di sangue che scorrevano nere dal costato e i piedi e le mani trafitti da chiodi grandi come spade arrugginite.
Lei era fiori freschi e profumo, dolce cantilena e pace.
Il terzo miracolo è avere fede. Credere in una storia che da generazioni si tramanda di padre in figlio, pardon, di madre in figlia nel gineceo della vita.
Lungi da me toccare argomenti sciorinati da menti eccelse in chiose certosine: i teologi della fede.
Dico solo che alle donne i fiori piacciono molto. Anche se siedono in troni celesti. Dico che le donne tra loro si comprendono e parlano in un continuo bisbiglio che è una lingua segreta di segreti.
Non era davvero ciò che si diceva ma come lo si diceva: occhi negli occhi.
I fiori nascondevano parte del volto della prima donna ma la bellezza rimaneva nell’aria per tanto, come una melodia al velluto dei petali, nell’armonia assoluta che non vedevo davvero in altri momenti dell’anno.
Era maggio. Era il mese suo.